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DIRTY BOULEVARD. Una passeggiata?

Sporco mondo, sporco tempo, sporca città. Un giorno d’autunno come tanti altri. Un giorno noiosamente rassicurante nella sua assenza d’ogni altra nuova vitalità che non sia la solita condizione. Uno sporco viale da percorrere. Ieri da passeggiare, oggi solo da transitare senza troppo badare o guardarsi intorno. Passo camminato, svogliato, cadenzato e ritmato all’auricolare con chitarra sintetica guizzante. Musica elettrica, nervosa, quasi incazzata, sul punto d’incattivirsi di più, ma ancora non del tutto cattiva, con qualche sonorità che rimane salvifica e speranzosa di un sogno e di un riscatto. Una sporca via. Sporca come tante altre, come un po’ tutto del resto in questo luogo. Una sporca strada macchiata d'oscura vita, di buio tempo, di grevi illusioni, di crude delusioni, d’aria pesante.
Transitano silenziosi passanti, sfumature di corpi in movimento, scure figure, sagome neutre, emblemi d’umanità, portatori di vita e moltitudine sola. Stress, tensione, ipertensione. Sporcizia umana e urbana, noia, solitudine e depressione. Tristezza e bellezza del progresso nel teatro contemporaneo. Degrado ambientale ed esistenziale. Le persone si fondono e si confondono con l’ambiente. Aleggia fretta, frettolosità, impazienza. C’è un’aria generica d’insofferenza, indifferenza, estraneità. Pur essendo ineffabilmente soli, non ci si trova mai veramente in quella che si potrebbe classificare, almeno per una volta, come efficace e buona solitudine, c’è sempre rumore animato, traffico e movimento. Passi veloci, nervosi, scuri cappotti, volti e occhi distratti, tutti intenti a seguire loro direzioni, percorsi a perdere nella prospettiva del boulevard.
Foglie morte, alberi urbani umidi e nudi in vesti di nere cortecce. Cartacce, mozziconi, cartocci di vecchi giornali stracciati, merde di cane e altre scorie vagano a terra senza alcuna possibilità di altro riscatto. Polvere nera e rottami. Scarti e rifiuti della metropoli rotolano al suolo tra anse d’asfalti e cemento. Vita sporca, respiro inquinato, desolati marciapiedi, lampioni e muri. Tanti muri, troppi. Troppi e brutti, sempre più brutti, sempre peggio. La gente non sembra farci caso, forse è per abitudine. Grigiume imperante e crescente voglia di fuga in un sogno che non smette mai di voler volare. Decadenza degli affetti e dei rapporti umani. I passanti sembrano le pedine di una scacchiera in movimento che sfuoca corpi dileguandosi e dileguandoli intorno. Un palcoscenico degno degli sciatti progetti disegnati da ancor più sciatti architetti e dei loro desolati ambienti a cinica scenografia. Territori crudi, astratti, distratti, assenti, a saturare sempre più esigui, rimanenti ritagli di salvifico cielo. Ma c’è sempre speranza e possibilità di fuggire. Sì, ma fuggire dove?
Cresce una sorda malinconia assieme a una muta tristezza che umilia l’umore come in un sorriso che piange nell'arpeggio medianico di un'alienante chitarra suonata per strada da chissà chi. La musica è stranamente piacevole, sembra un miraggio metropolitano. La forma del suono quasi anticipa, percorre ed invoca aria nuova nei tracciati, nelle rotte, nelle traiettorie degradate, nelle esauste vie del contemporaneo. Si animano alternative visioni, altre immagini e scenari, veri o onirici che siano o possano essere. Evocazioni e figure di territori reali o fantasiosi già morti o in agonia che si rivitalizzano muovendosi come i passi di chi sa dove andare ma che forse non vi vuole arrivare o tornare. Perché mai ritornare o arrivare? Tornare dove, arrivare dove?
Passi che vorrebbero sciogliersi, perdersi, essere altrove, confusi magari "tra un ennesimo nulla e un ulteriore addio". Inquietudine o rassegnazione? Anche qui nel boulevard s’affaccia voglia di fuga o solo di sottrazione, perchè i perimetri talvolta si fanno troppo chiusi, costrittori fino a soffocare.
Si perde la voglia di passeggiare, si perde la voglia di camminare, si perde la voglia di restare. Meglio fuggire. Una fuga verso un altro niente che, essendoci è già qui e che, non essendo, non serve.
Dirty Boulevard.
Franco Gobbetti © 5 novembre 2016.

Io amo questa città come poche altre Ivano Mercanzin. Mi è mancata prima ancora di lasciarla, prima ancora di partire e tornare in Europa. E' stato amore a prima vista, non per i grattacieli, non per le prospettive straordinarie che invita a far proprie, non per quel senso di invincibilità che quella torre di Babele infonde a chiunque la viva. L'ho amata per quelle strade e quegli angoli di quotidianità che nelle tue fotografie sono così ben tratteggiate e descritte, per quel caleidoscopio di razze e di culture che qui, non per magia ma grazie ad un lavorio lento ed incessante, è una fusione perfetta di lingue e di razze, di culture e di cucine, di odori e di preghiere. Qui, la torre di Babele è riuscita a creare quel che nella Bibbia è andato irrimediabilmente distrutto. Basta camminare al mattino presto od alle cinque del pomeriggio per vedere chi va o torna dal lavoro, scopri tutti i connotati delle razze esistenti su questo pianeta che incedono gli uni accanto agli altri senza colpo ferire, come se fosse sempre stato così, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Cammini su quei marciapiedi che appena vengono lavati brillano per i quarzi che contengono, sia di sera che di giorno osservi tutti quei colori, tutte le luci e le ombre che ne fanno parte e comprendi che l'umanità tutta qui vive come in un laboratorio, dove si sperimenta un'armonia altrove impossibile. Qui le esigenze della vita hanno reso sicurezza e certezza un'ospitalità che questa gente ha mutuato dal desiderio di rifarsi una vita, di partecipare ad un sogno, un desiderio di rinascita che ha un profumo, un odore preciso, quello che si avverte nelle strade di New York.Nelle tue foto ritrovo il lato di questa città più struggente, meno sfavillante forse di ciò che siamo abituati a vedere nei film o nel mondo della pubblicità, la città vera e propria, che respiri e vorresti portar via con te per piantare il suo seme ovunque! Ci si sente perdutamente innamorati dell'umanità a New York, anche quando ti perdi perchè in quella folla ci si ritrova sempre e ci si sente rassicurati. Per questo motivo non smetto mai di osservare nei dettagli i tuoi scatti, tu l'anima di quella città sai come raccontarla e come descrivercela, con piccoli squarci di un universo estremamente semplice nella sua complessità apparente. Ci si può sentire estremamente soli in mezzo alla folla, capita anche in questa metropoli piena di paradossi oltre che di incantamenti, eppure quando cammini per quelle strade sai di appartenere ad un angolo di universo dove tutte le differenze tentano di fondersi, a volte a fatica, altre con estrema facilità, questo tentativo affascina, questa continua commistione di passi ti fa sorgere il desiderio di viverci affrontando il caos calmo che emana ed avvolge.
(Paola Palmaroli) giugno 2017

Il primo giorno, giunta a New York, alla fine degli anni Novanta, camminai per chilometri per trovare un negozio in un quartiere ben preciso dove vendevano obiettivi fotografici a prezzi concorrenziali. Con il mio compagno di allora passai dal centro di quella metropoli ad una zona dove i turisti e la folla si diradavano, dove i marciapiedi si restringevano, i negozi colmi di ogni tipo di insegne e messaggi avevano vetrine più piccole ed entrate meno moderne composte di pannelli. Ricordo un quartiere come questo da te fotografato. avevo i piedi cotti ma la mia curiosità era tale che non smettevo di fotografare la gente che incontravo, ancora più curiosa di me ma frettolosa nello squadrarmi dalla testa ai piedi. Trovai un negozio che vendeva mono porzioni di verdura e frutta, gestito da asiatici, mi appoggiai ad un muro ed attendendo che quel benedetto obiettivo fosse trovato, restai fuori a sgranocchiare il mio pasto. In Italia non vendevano ancora nei supermercati frutta e verdura pronta da consumare. Era l'ora della pausa pranzo e c'erano parecchi impiegati vestiti elegantemente con scarpe da ginnastica ai piedi che compravano dal tramezzino alla bibite fresche. Ricordo di aver provato una sensazione bellissima di libertà, quell'anonimato che ti consente di guardare ferma ad un angolo della strada la vita intorno a te sgranocchiando carote e sedano, ananas e mela, senza sentirmi fuori luogo o giudicata per questo. Non fotografavo molto allora, preferivo usare gli occhi e poi scrivere tornata in albergo quel che avevo visto o sentito. Lo faccio ancora oggi ma divido i miei sguardi tra il mezzo fotografico e quell'abitudine di osservare la gente con la curiosità dei bambini che sapevo donarmi qualcosa che l'obiettivo fotografico non i avrebbe mai consentito di ottenere: la disponibilità altrui ad essere guardati. Chi viene ripreso con la macchina fotografica ancora oggi si infastidisce, devi fare in modo di non essere vista se vuoi cogliere l'immediatezza di una scena od un volto. Se cammini e guardi chi incontri in metropoli come New York la gente neppure ti vede, alcuni incrociano il tuo sguardo ma paiono non vederti perchè pensano ad altro, altri ancora sono così concentrati nel loro lavoro o nella direzione da prendere che si spostano appena vedendoti all'ultimo momento. Questo può sembrare alienante se ci vivi a lungo ma per chi viaggia, c'è un aspetto che appare straordinario: quando uno solo ti vede e si sofferma ad osservarti come tu fa con lui, scatta il contatto, un leggero sorriso oppure un saluto appena accennato con gli occhi, quella curiosità insita nella nostra natura che fa la differenza anche in mezzo ad una folla. New York regala molti momenti come questo appena descritto, ci si sente come gli animali appena usciti da uno zoo me nessuno ti vuol far rientrare in quella gabbia di cui ti sei liberata. Parlo del pregiudizio, del cercare assolutamente dei punti di riferimento, abiti, odori, connotati, voci, perfino la musica, che fa parte delle nostre città, dei nostri piccoli centri urbani. Forse non troverete mai quel calore che hanno i nostri borghi e certe realtà dove perfino un mercato diventa un angolo di mondo dove comunicare con spigliatezza i nostri bisogni, dove farsi una risata ed annusare la gente per come parla e si muove, dove tutti conoscono l'altro e lo sguardo ha un calore indimenticabile. Eppure, New York anche senza quel calore tipicamente nostrano, possiede un incantamento che ti fa sentire libero/a di camminare e di pensare come se gli orizzonti fossero dilatati a dismisura e tu tra grattacieli e palazzi potessi perdere il senso dei confini mentali, inutili per sentirsi umani tra gli umani. Le persone che incontri non le vivi come se fossero estranee completamente, sai che pur parlando lingue diverse, mangiando cibi diversi, fanno parte della stessa comunità in cui si svegliano al mattino ed a sera li vedrà cercar risposo nelle loro abitazioni. Capisci cosa significa far parte di una società, di un gruppo umano, lo avverti nella pelle, lo annusi. Qui in Europa, dove viviamo, le differenze sono sancite da tanti piccoli dettagli, se sei un turista in certe città meglio essere accompagnato da un residente per evitare che ti lascino in mutande, mentre in certi piccolissimi paesi di montagna ti fanno festa perchè per buona parte dell'anno non incontrano nessuno che provenga dalla città e sei una novità di carne ed ossa da corteggiare per ricevere notizie ed attenzione. Paesi abitati esclusivamente da vecchi, in estate colmi di villeggianti, per il resto dell'anno svuotati dalla quotidianità chiassosa dei giovani abitanti.In Europa le differenze sembrano macigni, tranne che in grandi città come Parigi, Londra, Berlino, o nelle città portuali, mentre a New York e solo a New York le stesse differenze si sbriciolano, si annullano a vicenda. Forse per questo che il nuovo terrorismo è partito da quella città nel 2001 per giungere fino a noi dall'altra parte dell'oceano. Più una città è cosmopolita ed abnorme e più la gente riesce ad annullare ogni barriera, pur con tutti i problemi ed i limiti di un agglomerato urbano così dilatato e ricco di contraddizioni dettate dalle disparità nell'accedere alle risorse economiche. . New York non è un eden, è un luogo dove la società umana ha trovato il suo riscatto nel corso dei secoli, dove milioni di persone sono passate per scappare da guerre, fame, distruzioni di ogni tipo, una città per giovani, dove il futuro faticando e sudando come non mai era ancora a portata di mano fino a non molto tempo fa. un futuro, da costruire e modellare sulle proprie capacità, un luogo dove poter ancora sognare.Per questo Ivano Mercanzin, conoscendo la storia di questa città ed avendola vissuta in un momento particolarmente felice della mia esistenza, ogni volta che vedo uno scatto che la racconta ne rimango entusiasta e mi soffermo a lungo per ritrovare la sua voce, i suoi odori.
(Paola Palmaroli) giugno 2017

E' da un po' che osservo i tuoi lavori e devo dire che mi hanno preso l'attenzione da subito. Innanzitutto il tuo bianconero, questo bianco e nero quasi esasperato, a volte disperato, usato con forza e poesia, indubbia poesia ma usato soprattutto per mostrare le tracce e gli alfabeti del tempo e dell'esistenza. Il tuo bianconero incide e a volte graffia svelando i segreti e i particolari esistenziali e materici delle cose ma anche quelli spirituali. Mi colpisce la grafica che ritrai e valorizzi che, come in questo caso gioca in primo piano un ruolo decisivo. Una scena piatta di una via d'una grande città, una vetrina specchio che riflette il movimento umano comunque minimo e poi la grande insegna a muro che risucchia l'attenzione e crea dinamismo surreale alla foto, alla vita di questa foto, alla vita che viene ritratta e riflessa in questa immagine puntata nella grande vetrata, Scenario umano di passi in un marciapiedi che guida o che disperde e smarrisce chi lo frequenta interpretando i percorsi urbani forse come un dedalo che confonde la vita mentre dall'alto della vetrina c'è un urlo che continua.
(Franco Gobbetti)

Davvero bella, davvero di spessore: un racconto che si snoda su più piani, superfici, tempi e segni, un intreccio di storie e di storia che si fa presente, una simultaneità stratificata, "liquida" (Bauman) e momentanea, fluida, molteplice e casuale come una libera intersezione nello spazio-tempo che viviamo...
(Luciano Benini Sforza)

Come tornare indietro nel tempo grazie ai tuoi superbi bianco e neri, in una New York degli anni Trenta del secolo scorso, pur essendo ai giorni nostri, calati nell'atmosfera di una strada, di una quotidianità faticosa cui andare incontro, su un marciapiede consumato da mille e mille vite che lì si sono date appuntamento senza saperlo, incrociandosi. Come il tuo sguardo delicatissimo su quell'anziana che incede appoggiandosi al carrello. Bellissimo squarcio di una metropoli che è impregnata di un'umanità così varia che ogni suo angolo diventa un paesaggio umano prezioso come non mai.
(Paola Palmaroli)

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