Paola Palmaroli mi racconta...
date » 03-11-2016 23:18
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Ivano Mercanzin riesce a rendere un luogo straordinario nella sua semplice ed ordinaria espressione spaziale e temporale, lo fa con una naturalezza che incute rispetto e fascinazione, è la sua cifra stilistica, una caratteristica in continua evoluzione che trasforma le sue immagini in narrazioni impareggiabili.
In questo suo scatto la prospettiva ha reso le finestre antiche con le inferriate simili a degli occhi che stanno per chiudersi per la stanchezza ma ancora mantengono viva la loro curiosità di scorgere chi sta camminando oltre quel fossato.
Finestre come occhi appesantiti dal tempo ma non dal desiderio di appartenere sia alla costruzione dove sono incastonate che allo sguardo delle persone che vi passano accanto riconoscendo in un buio invitante il mistero della notte che li sta vestendo ed abbracciando con infinita dolcezza.
In questo scatto accade che il giorno pur avendo rinunciato alla luce del sole abbia chiesto alla la sera di farsi rinchiudere negli occhi della notte per scoprirne la magia indissolubile. Il muretto invita i passanti e chi osserva dall'esterno la scena a seguire una direzione ben precisa ed ha raggiungere le luci accanto alle case che per tutta la notte riusciranno a trasformare quel luogo in un incantamento rotto solo dal suono dei passi di chi vuole rinunciare al sonno pur di rimanere vivo e percepire il pulsare del buio più assoluto. Una città ed il suo desiderio di rimanere sveglia come il cuore di chi la abita, le luci questo raccontano ed Ivano Mercanzin le ha fatte sue in questo delicato scenario dove tutti noi vorremmo passeggiare prima di coricarci. L'autore riesce a farci percepire le voci morbide di chi si sta attardando, il profumo dell'aria quando ancora non fa freddo e la notte indossa tutti gli umori di chi la respira e la impregna di sè. Il buio non appare come incombente ma come un fluire pacato di un tempo a portata di mano di chiunque voglia farlo suo con quella calma che le figure umane lasciano trasparire dal loro incedere. Qualcuno li potrebbe definire sarcasticamente dei nottambuli perditempo, invece insieme alle luci ed al tempo loro si rivestono di quell'incantamento assoluto che ci incute timore e curiosità.
La notte è una seconda pelle, gli esseri viventi si godono una scena delicatissima e sognante dove regna armonia, comprese le finestre delle case, palpebre abbassate per riposare dopo una giornata di luce e di lavoro. Le chiacchiere serali, prima che tutto taccia si fondono con una prospettiva che l'autore dello scatto ha abilmente scelto ed evidenziato per comunicarci una serenità composta apparentemente di poco ma al contrario ricolma di un tutto che giunge fino alla nostra anima.
Come non evocare certe voci che sorridono mentre si fanno udire allontanandosi piano piano dalle case insieme ai passi che le sostengono? Indimenticabile atmosfera e gioco di luci ed ombre, il buio si veste di un cuore rassicurante che Ivano Mercanzin ha continuato a far battere nel suo scatto attraverso una miriadi di dettagli preziosi.

RACCONTO: Due lune
date » 01-11-2016 17:53
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“Due lune" di Tania Piazza
Foto di Ivano Mercanzin, "Le vite degli altri".
"MARZO 1984
Dalla finestra passa solo grigio, oggi. La stanza è abbastanza grande, e confortevole, per quanto lo possa essere una stanza d’ospedale. Almeno è colorata, e l’azzurro è il mio colore preferito. Ho anche un bagno con doccia, un lusso. E un grande armadio tutto per me. Certo, è di alluminio, come quello degli spogliatoi delle fabbriche, ognuno col suo numerino e la sua chiave, ognuno uguale all’altro. Però è spazioso, molto più di quello della settimana scorsa, altro ospedale, altra stanza, ben più scarna di questa.
Chiudo per un attimo anche il mio occhio sano – l’altro lo è già, costretto sotto una benda, da circa quindici giorni ormai – e provo a rivestire quell’armadio, il mio armadio, di legno. Caldo, vivo, venato, con la vita che gli scorre dentro. Lo tocco, accarezzo quella superficie che mi parla di luoghi lontani, lo vorrei in teak e che arrivasse dall’epoca coloniale inglese, in India. Riscalda la stanza, la sua luce e la sua grazia contaminano tutto il resto. Ci metto anche un tappeto ai piedi del letto, i miei piedi scalzi lo accarezzano, la trama grossa e grezza, fatica e ore di lavoro. E di fantasia.
Una voce mi distoglie dal mio viaggio, riapro di scatto l’occhio, una violenza rientrare così all’improvviso nella realtà. Un’infermiera mi lascia delle pastiglie, mi ricorda come e quando le dovrò prendere. Pastiglie. Ancora pastiglie. Io, che da sempre odio l’idea di intossicarmi con quella porcheria. Mamma e papà, invece. Mi chiedo sempre come i loro corpi possano ancora riconoscere nuove medicine giorno dopo giorno, ora dopo ora. Ho come il senso che alla fine qualcosa si annebbi, come se una patina scendesse viscida e appiccicosa su tutto il loro essere, cambiando la loro essenza che soccombe. Rimango io, ad ascoltare le loro liti appannate.
Mi avvicino alla finestra, faccio così fatica a muovere i passi, sono ancora senza forze. Queste settimane di ospedali mi hanno segnato. Giorni lunghi e lenti, trascorsi contando i minuti e le ore. Giorni carichi, giorni singoli che sembrano la somma di giorni diversi. Accumulo di stanchezza fisica, tanta. Impassibilità e sforzo continuo al riso, all’allegria, alla positività con me stesso. Accumulo di stanchezza interiore, l’anima ormai satura di discorsi legati all’ospedale. Luoghi dove tutto viene attutito, anche la voglia di vita, che già era poca.
In cielo sta passando uno stormo di uccelli, chissà se loro riescono a orientarsi lassù, oggi pare che ci sia una grande telo grigio tirato a coprire il cielo. Non mi piace. Chiudo il mio occhio, voglio che lo spettacolo ricominci per me. E rieccoli, i miei uccellini, si stagliano nitidi e scuri sull’azzurro dello sfondo. La luce è così violenta che ferisce gli occhi, i colori sembrano tirati a lucido per una festa. Così puliti da vederci attraverso. Lo stormo è eccitato, ogni elemento ingranaggio fondamentale e insostituibile e al tempo stesso libero e anarchico nel suo modo di muoversi. Disegni perfetti davanti ai miei occhi spalancati, opere geometriche, ordine assoluto. Ci fossero uomini al posto di quegli uccelli sembrerebbe tutto triste. Rassegnato. Uno uguale all’altro, in una catena di montaggio. Invece l’effetto è fantastico. Libertà e comunione come solo gli animali possono.
Rumori in corridoio, riapro l’occhio. Sono stanco, torno a letto. Proverò a dormire un po’.
SETTEMBRE 1986
La sveglia, anche stamattina. Non mi piace il suono che fa. Mi riprometto sempre di andare al negozio all’angolo per comprarne una nuova. La tipa che serve mi guarda con quel suo modo strano, come se fossi un animale malformato. Ogni volta è sempre quel suo modo di abbassare gli occhi all’ultimo momento, quando scorge la mia mano sulla maniglia della porta e in un lampo leggo commiserazione, su quella faccia. E’ sempre questo, a fermarmi. E’ colpa sua se ho ancora questa dannata sveglia che fa ti ti ti.
Mi alzo di malavoglia, iniziare col suono sbagliato dà un canto negativo alla giornata. Afferro la felpa e me l’infilo, i jeans sulla poltrona e le calze di ieri. E vado di filato in bagno. Mi guardo allo specchio, ancor prima di avvicinarmi al water, è così larga la mia faccia quando sono aperti tutti e due. Uno la mamma dell’altro, uno forte l’altro cucciolo, con le crostine come i bambini. Poi, mi avvicino al lavello, apro l’acqua fredda e aspetto che si faccia gelida. Via, a due mani , dentro a entrambi, il mio rito quotidiano. L’acqua , la stessa acqua, si sdoppia: per l’occhio esterno è una forma di rinforzo, una preparazione a quello che vedrà durante la giornata; per quello che rimane nascosto è una sorta di calmante, un sonnifero per tenerlo buono, scalpita ancora per uscire ma io non l’ho più fatto affacciare al mondo, dall’ultima operazione.
Denti, faccia, scarpe. Mi avvicino all’armadietto in ingresso, spalanco le ante e, come ogni volta mi accade, mi lascio portar lontano dalla scia di colore all’interno: un arcobaleno ordinato. Dopo un attimo di esitazione, la mano va a prendere la fascia verde, e chiudo le ante. Infilo la benda e me la lego sulla nuca. Ormai non ho più bisogno di guardarmi allo specchio, è un’operazione dettata dall’anima – e si sa che l’anima è dogmatica quando ci si mette – e ha trovato la sua meccanicità nel corso degli ultimi due anni.
Apro la porta ed esco, sbattendomela alle spalle.
OGGI
Oggi è domenica e c’è un sacco di movimento, qui. C’è anche la messa, e le suore sono in subbuglio per l’arrivo del parroco. Qualche anno fa avrei girato la testa anch’io, al suo passaggio. E’ un uomo interessante, sempre in jeans, occhiali dalla montatura di tartaruga e barba lunga, rossa. Come i capelli. Uno così doveva fare l‘attore, non il prete. Chissà cosa l’ha spinto. Poi, ci son le visite, e quindi oggi tutti puliscono un po’. La cosa assurda è che fan di tutto per rendere le cose splendenti e finte, oggi che i parenti che li han chiusi qui dentro vengono a compiere il loro dovere. Dovrebbero far vedere come vivono di solito, non quando “è festa”. Questo è quello che penso io. Ma io son qui perché son matto, secondo loro, e quindi il mio pensiero non conta.
Quando mi sento ferito da questa verità – mi capita ancora qualche volta, soprattutto se fuori piove e io porto la seggiola vicino alla finestra e me ne sto a guardare le goccioline che scendono – allora con la mano vado in cerca della stoffa della benda, e un po’ di forza ritorna in me. E’ come se mi scaldasse. Qualcuno fa ancora caso al mio occhio bendato, e commenta sempre in quel modo villano e inopportuno. C’è gente che non sa nemmeno l’italiano, qui, e il dialetto colpisce come una lancia. Ma la maggior parte degli ospiti della casa di riposo ormai non ci bada più. Qualche volta ancora mi tocca rispondere alla domanda, e le parole escono ormai vecchie anche loro, come me, adagio adagio come se camminassero appoggiandosi a un bastone, loro al bastone e io alla mia benda. Il fatto è che il mondo mi fa paura. E’ troppo grande e cattivo. Guardarlo tutto intero, con due occhi, è troppo per me, da una vita. Dopo l’ultima operazione, il periodo di convalescenza mi ha cullato. Mi ha insegnato a ridimensionare le cose guardandole meno, semplicemente con un occhio solo invece che due. Era tutto così diverso, visto con un angolo chiuso. Dover spostare il capo di lato per inquadrare un oggetto voleva dire escludere un’altra parte della visuale. Niente di più semplice, quindi. Ho imparato così bene che non son più riuscito a farne a meno. Quando mi han detto che il mio occhio malato non lo era più e potevo togliere la benda, mi sono arrabbiato. Ricordo di aver urlato, le mani del medico sulla mia faccia era come essere violentato da lui. Non ne voglio sapere!, ho continuato a ripetere.
Da lì, è iniziata la vita. Nessuno mi ha seguito. Sono diventato solo, e matto. Il mondo si è fatto più cattivo. E più cattivo diventava, più mi veniva di chiudere l’occhio. Da sotto la benda lo strizzavo con tutte le forze, per tenerlo al sicuro, al caldo e coccolato. E per vedere il meno possibile.
Ora, pare che a furia di tenere un occhio aperto e uno chiuso per così tanti anni che ho perso il conto, la mia vista si sia spenta, un poco alla volta. Poco male. Non ho chiesto io di venire al mondo, in questo mondo. E chi l’ha deciso per me se ne è lavato le mani. Ho cercato di rimpicciolirlo per gran parte della mia vita. Adesso che è diventato piccolo abbastanza, si smarrisce giorno dopo giorno,in una nebbia costante e delicata, che mi è amica.
I giornali che non so più leggere, lo sdegno di chi giudica, la cattiveria di uno sguardo. La dolcezza che non c’è, la solitudine dei diversi. Io non li conosco più. Sono salvo, finalmente."
RACCONTO: Al riparo
date » 16-10-2016 11:26
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Non mi volto a guardarti, so già quello che vedrebbero i miei occhi. Mi nascondo, invece, affondando lo sguardo tra le righe sottili e fitte di questo quotidiano che fatico a leggere, sforzandomi ogni volta di esserne interessato. Quando arrivi, è la prima cosa che mi dai, ancor prima del bacio e dell'abbraccio che mi sogno da ore. Attimi effimeri, quelli, che sembrano solo un contorno dovuto alla consegna del giornale. "Eccolo, papà, so che lo aspettavi", e poi ti avvicini fugace, le tue braccia che ricordo ancora piccole e sottili, i tuoi capelli che mi solleticano il volto quando ti chini per sfiorarmi con le labbra le guance vuote, scavate dal tempo. Scorgo, a volte, un lampo che brilla di bianco, sulla tua testa. Allontano sempre il pensiero che sia un altro segnale degli anni che avanzano; preferisco vederlo come un difetto dei miei occhi, quelli sì che son vecchi ormai. Sai, mi incaponisco alcuni pomeriggi, quando mi metto davanti alla tv a guardare i programmi sportivi. Lo faccio proprio per farlo passare, questo tempo da solo, quello senza i rumori e i suoni della vita, le risate e i racconti che immagino tu porterai con te quando mi verrai a trovare col giornale. Mi incaponisco a pensare che quello che c'è di vecchio dentro a me non mi appartenga. Non li voglio, questi occhi che vedono fili bianchi tra i tuoi capelli d'oro. Non voglio queste braccia, che vanno a rilento quando vorrei trattenere le tue attorno al mio collo, e invece rimangono indietro, come spossate, mentre le tue, dopo appena due secondi, se ne tornano giù, vicino al tuo corpo, lasciando spazio e vuoto attorno al mio. Non voglio nemmeno queste gambe, che faticano a camminare al tuo passo, e ti fanno spazientire di nascosto, per non farmi stare male. E poi, lo sai, non voglio nemmeno questo cuore anziano e testardo, perchè è da lui che parte il rifiuto a guardarti e a parlarti, ora che sei seduta accanto a me su questa panchina. E' un cuore usato, che non funziona più come una volta; mi mette in imbarazzo ma non so come fartelo sapere. Perde acqua, che poi esce dagli occhi, ma io lo ignoro, e allora fingo di leggere queste righe sottili del quotidiano, mentre tu, stanca, ti assopisci al mio fianco. Poi, quando sento il tuo respiro farsi regolare, alzo lo sguardo in alto. L'albero che ci fa ombra ha gli stessi anni tuoi: ho fatto una sorpresa alla mamma, il giorno in cui sei nata, e l'ho piantato, dandogli il tuo nome. Giusto vicino all'altro, che invece porta il suo. Le mie due gioie, le mie due rose. Ciò che rimarrà.
Verrà un giorno, in cui arriverai e troverai solo loro ad accoglierti: sarà come essere allo specchio, per te, la tua anima e quella della mamma riunite ad accoglierti, e a vegliare. Non ho mai voluto piantarne un terzo, ho sempre pensato che la forza del mio spirito sarebbe stata in più, qui. Talmente belle e grandi le vostre auree, non avrai bisogno di me. Sei tu, invece, a darmi modo di andare avanti, ora. Ogni pomeriggio, quando sento avvicinarsi il momento, passo prima per il bagno. Mi affaccio sopra il lavandino, a osservare la mia immagine: mi sistemo un po' l'argento che ho in testa, e poi faccio le prove: alzo un po' gli angoli della bocca e gli occhi mi si socchiudono. E' allora che sussurro: "Ciao amore mio, sono felice che tu sia qui. Non faccio che aspettarti, a tutte le ore. Mi sembra sempre di sentirti ancora in giro per la casa, i tuoi piedini leggeri che corrono di stanza in stanza, le tue risa grate e meravigliate davanti alla grandezza della vita. Poi, però, mi rimbomba nelle orecchie un enorme silenzio, e mi rendo conto che non sei qui, e non sei più la mia piccina. Mi manchi sai. Mi manca la mamma. Mi manca la vita. Ecco perchè ti aspetto a tutte le ore. E adesso che sei qui, sono finalmente felice". Le dico tutte d'un fiato queste parole, perchè vanno da sole ormai, le ho forgiate nel tempo e mi sembrano le più oneste. Me le preparo davanti allo specchio perchè fanno un po' fatica a salire per la gola; le devo allenare, allenare, allenare tutti i giorni. Fino ad ora non ci sono riuscito ancora, ma non perdo le speranze. Anche adesso, finchè ascolto il tuo respiro regolare, penso che mi piacerebbe svegliarti e dirtele. Vorrei liberarmi, perchè non vale davvero la pena tenersi dentro tanta verità. Ma poi, lo sai cosa mi blocca? E' il pensiero che tu sia così stanca. Che tu, ogni giorno, poco dopo il tuo arrivo, dopo avermi dato veloce il giornale, un leggero abbraccio e un bacio che mi pare sempre troppo corto e sempre più breve, ti sieda su questa panchina, sotto il tuo albero, appoggi il gomito al legno e il tuo viso alla mano, guardandomi leggere. E poi, subito dopo, io senta il tuo respiro regolare. Sei tanto stanca, tesoro mio, e non voglio svegliarti. Mi pare che tu stia bene, qui, che tu venga per trovare un po' di pace, al riparo, sotto l'ombra delle nostre anime: quella della mamma, che fa muovere dolcemente le foglie del suo albero per mandarti una carezza, e quella mia, che arranca qui vicino senza saper proferire parola. Ma se sapesse farlo, ti direbbe "Ciao amore mio, sono felice che tu sia qui".
Dormi serena. Io, anche oggi, aspetterò che ti svegli.
(racconto di Tania Piazza)
foto di Ivano Mercanzin - Venezia 2016
RACCONTO: Ma è già notte
date » 16-10-2016 21:42
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Quando arriva il giorno, finalmente, lascio entrare la luce. Alzo le persiane poco per volta, assecondando il percorso del sole e me ne sto qui seduto al pianoforte, a osservare i raggi che inondano il pavimento. E’ uno stillicidio, lento e crudele, ma necessario, le ombre mi lasciano e io espongo il mio corpo. Fino a quando sarà chiaro, le mie difese saranno a terra, pronte per essere calpestate. Il mondo mi vedrà, ed espierò le mie colpe. Una musica flebile si farà strada con coraggio, le mie dita si coloreranno di nuova linfa.
Poi, di nuovo, arriverà la notte, e lascerò entrare il buio. Dalle finestre, come un balsamo salvifico che cura. La musica si farà più grossa e le mie mani scorreranno impavide sulla tastiera, senza sosta e senza fiato, sfinite. Rialzerò il capo, incurante di chi mi potrà vedere e giudicare. Ci si vergogna delle proprie azioni, quand’è giorno, ma è la notte quella che ci rende ancora pronti, e rinforza le nostre malignità.
Io le coltivo, perchè è dalle brutture che nascono le bellezze. Mi nutro di questo pensiero, sperando notte dopo notte che il mio animo si faccia sempre più cupo, per vederlo poi, giorno dopo giorno, tornare a essere sempre più luminoso. Anche la musica che produco cambia, questa stanza vuota ne è testimone. Disadorna o ricca. Insolente o guardinga. Pare provenire da luoghi diversi, dentro di me. Anfratti senza eco, angoli che rimbombano. Intanto, penso al modo in cui ho trattato la donna incontrata e raccolta per strada qualche ora fa, ai suoi occhi che imploravano di capire e a tutto quello che le è passato per la testa mentre la insultavo e la cacciavo, allontanandola dopo essermi preso ciò di cui avevo bisogno; ma era notte, la luce mi aveva lasciato, e io non potevo non farlo.
Avrei voluto incontrarla di giorno, quando le tenebre non mi fanno paura e il mio spirito si illumina, lasciando uscire solo il bello che tiene nascosto. Come una musica, ciò che mi abita in fondo al cuore, ma che non so vedere; come queste mani, che indomite non si fermano nella loro ricerca della perfezione. Le avrei accarezzato il viso e l’avrei tenuta al riparo dalle ombre, sempre. Le avrei detto parole che non avevano il sapore della malvagità, e il suo sorriso grato sarebbe stato la mia ricompensa.
Ma l’ho incontrata di sera, quando la mia parte più timida e bella era sopraffatta dall’oscurità. Non lo so perchè lascio che il buio si impossessi di me, so solo che non ho scampo, che mi seduce e mi porta lontano da tutto, anche dalla mia anima. Non sono io quello, ma mi mostro senza pudore e semino cattiveria. Della quale mi vergogno, poi, di giorno, quando lascio che la luce entri da queste finestre e me ne sto a suonare, punendomi nel profondo.
Ma poi, poi arriva di nuovo la notte, la musica si fa potente e il buio protegge i miei pensieri, scherma i miei occhi e mi rende inscalfibile. Non sono io, quello. Ma non so smettere. Fino a quando ci sarà musica dentro alle mie mani.
Avrei voluto incontrarla di giorno, in un giorno pieno di luce che non lasciasse scampo alla mia crudeltà.
Ma ora è già notte, di nuovo.
(racconto di Tania Piazza)
foto di Ivano Mercanzin - Photokina 2016 - Colonia
RACCONTO: Troviamoci davanti al mare
date » 16-10-2016 21:45
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Eppure non doveva essere così difficile incontrarti. “Troviamoci davanti a un mare, uno qualunque”, mi avevi detto, salutandomi con un bacio. “L’immensità della sua vista ci troverà uniti, e che meraviglia sarà, allora, stringerci le mani assaporando le onde in arrivo!” Belle, le tue parole. Ci avevo creduto, portavano con loro il tuo sapore ingenuo per la vita, la tua meraviglia davanti a ogni nuovo sentimento. “Non riesco a non pensare a te”, continuavi a scrivermi. In qualunque momento del giorno e della notte, mi appariva sul cellulare sempre un nuovo messaggio con la stessa identica frase. Una volta ti ho chiesto se la copiassi e incollassi per risparmiare tempo. I tuoi occhi, in quel momento, traboccavano così tanto dolore che mi sono sentito piccolo e colpevole. Il piacere che provavi a scrivermi quelle parole, giorno per giorno, mi hai risposto, era una delle sensazioni nuove per le quali ti meravigliavi a ogni ora, e ringraziavi il mondo. E continuavi a riscriverle come in un mantra, per non perdere il dono di quella gioia. “Non riesco a non pensare a te”. E perché dovresti farlo?, ti chiedevo. Pensami, sognami, amami, tienimi con te.
Eppure non doveva essere così difficile incontrarti. Avevi detto che bastava avere un mare davanti, e noi ci saremmo trovati. Non ho smesso di crederci mai, nemmeno quando ti ho fatto promettere che non saresti sparita, perchè iniziavo a percepire la tua trasparenza nelle mie giornate. Come un ologramma, che si scolora al sole. E lo ritrovi vuoto, disabitato, seccato dal calore e dall’aria. Nemmeno allora. Ho camminato e mangiato, vissuto e aspettato. Ho ascoltato la musica di questo mare e di mille altri, pervaso dalla tua dolorosa assenza, sicuro che prima o poi avrei trovato quello che ti avrebbe riportato a me.
Fisso quest’acqua chiara e i gabbiani che portano in giro il loro pallore, oggi, e alla fine di questa nuova giornata mi ritrovo ancora a pensare che non doveva essere così difficile incontrarti. Le istruzioni erano semplici e io ci avevo creduto: mi bastava trovare una distesa azzurra, e lì davanti avrei riavuto te. I tuoi occhi, quando mi hai salutato, me lo hanno giurato. E loro, almeno loro, erano incapaci di mentire. Io non smetto di crederci. Devo solo trovare un nuovo mare, uno solo, sarà l’ultimo, lo so: cambiare nuovamente città, gente, regioni, paesaggi. E stare a guardare. Prima o poi ci incontreremo, davanti a un mare, uno qualunque. Io e te.
(racconto di Tania Piazza)
foto di Ivano Mercanzin - Venezia 2016
RACCONTO: A spasso per Venezia
date » 16-10-2016 21:59
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Si chiama Giacomo, come mio nonno, che non ho mai conosciuto. Mi chiedo spesso come si possa definire – mia – una persona con la quale non si è mai parlato. Nessuno scambio di opinioni, nessuna condivisione di tratti di vita. Niente che faccia sì che circoli nel mio mondo. Eppure, Giacomo era Mio nonno. Così mi hanno detto. E questo signore che mi guarda con l’anima in mano si chiama come lui, me lo sento. Ci stiamo scambiando uno sguardo, in effetti, anche se io sto al di qua di una cornice e lui ci vive dentro… quindi la condivisione c’è. E forse, a volte, è molto di più di quello che succede tra compagni di vita. Le mie coinquiline, per esempio. Viviamo un sacco di cose, insieme. Il lavarsi i denti alla mattina. Lo spazio ristretto del cucinino. Il divano raffazzonato. I programmi alla tivù. Ma chi, chi di loro mi ha mai guardato in questo modo? Eh sì, caro Giacomo, il tuo sguardo mi è penetrato a fondo, mentre davo un’occhiata veloce a tutte le opere di questa esposizione. Temo che da questo momento tu sia la persona con la quale ho condiviso più cose. Anche le tue dita non se ne stanno zitte. E forse le sentono anche i due tipi seduti poco più avanti. Lui ti guarda da sotto i suoi occhiali scuri, lei invece non ne ha il coraggio, forse. Oppure, semplicemente, non sente ciò che sento io. Non è musica, ciò che esce dalla tua fisarmonica. Anche perchè hai smesso di suonare, da quando ti sto a guardare. E’ vita, la tua. Immagino i campi che ti hanno segnato quelle dita, e l’alzarsi presto alla mattina, quando il resto del mondo ancora dormiva. Il prendersi addosso il freddo, quello che tagliava. E la pioggia, quella che ti faceva affogare dentro. E alla fine delle ore di ogni giorno, quando la schiena non pareva più appartenerti, il sedersi, finalmente, su quella seggiolina di plastica bianca, proprio come questa. Nell’angolo della cucina che guardava fuori, perché almeno le tue note potessero andarsene. Tu e la tua fisarmonica. Una purga. Un rendere grazie a quel Dio che ti faceva bestemmiare, di giorno, ma che ti ricompensava, la sera. Grazie, mio Signore, per la gioia che mi danno tutti i nuovi giorni. Sono io, che non capisco, povero contadino. Mi sento stanco dentro, quando abbasso la schiena sui piselli che devo curare, quando lego le viti per farle crescere meglio, quando zappo la mia terra scura per creare nuovi spazi. Ma so che poi, a sera, ogni sera, riesco a renderti grazie, perché tutti i gesti che compio ogni giorno guardano a domani. E così, so che tu mi vuoi tenere qui ancora, per questo.
Ora, osservandoti, sono io che ringrazio te, contadino Giacomo. I tuoi occhi mi hanno fatto pensare a ciò che costruiamo, a ogni ora. Rivedo il cucinotto con le ante sbiadite, il divano raffazzonato, lavato e rilavato inutilmente. Penso che anche loro, a modo loro, parlino la tua stessa lingua. Quella del domani che verrà, dell’esserci oggi, per costruire un giorno nuovo. Il mio sguardo molla per un attimo il tuo, e cade a terra, dove la tua ombra enorme si è stesa comoda, sugli scalini. Sembri così piccino, al suo confronto. Ma lei, lei ha capito tutto. La tua proiezione a terra parla, come i tuoi occhi e le tue mani. Sei grande, Giacomo. Vorrei, un giorno, poter avere un’ombra come la tua.
(racconto di Tania Piazza)
foto a colori: mostra di Ivano Mercanzin - Venezia visioni e illusioni - Villa Cordellina - Montecchio Maggiore (VI)
foto in bianco e nero: Venezia - Il suonatore di fisarmonica - di Ivano Mercanzin
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El barbiero
date » 17-09-2016 08:47
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<<Venezia di vicoli, vento, puzzo e vetrine. Venezia dai colori pastello e poi rossi, poi violenti grigi e tramonti scaraventati nelle ali degli uccelli, Venezia non cambia: inquieta e sorniona si beffa di tutti, affonda e non cade mai. La sua maschera è la più grande, rara, comprende il mondo. Ci cattura, ci innamora, ci leva ogni risorsa e sui cumuli di nebbia spruzza pioggia salata.>>
Silvia Elena Denti
Pensiero su Venezia, foto di Ivano Mercanzin
VENEZIA
date » 10-09-2016 00:50
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Venezia è un teatro, un palcoscenico, un balcone con vista dilatata su un infinito che sembra non smettere mai.
Cosa penserai mai giovane con cappellino vintage anni 60 e zaino in spalla seduto sul ciglio di un approdo di vecchia pietra? Cosa penserai mai qui colto, più o meno casualmente, in una bella foto di Ivano Mercanzin?
Colto in un fermo immagine che forse ti raffigura il futuro fluttuante e inquieto come questa laguna che sputa in superficie qualche rifiuto della benestante società che con troppo zelante entusiasmo turistico getta bottiglie in plastica nei canali?
Te ne stai a rimirare questo poetico bacino e forse anche evocando una proiezione di te stesso riflessa nell'acqua che sempre si muove e non sta ferma mai? Una nave sta scivolando per contratto turistico e per mestiere, sull'onda verso lidi e porti lontani, d'oriente o d'occidente, forse vorresti esservi a bordo per andartene verso un diverso destino? Chissà quale vera storia ci propone questa foto di Ivano che nei suoi lirici bianchi e neri acquerellati in quest'acqua di mare testimonia ancora una volta il proprio amore verso Venezia e la sua laguna. Una storia salmastra che forse diventa anche dolce."
(FRANCO GOBBETTI)
"Venezia è un nome”
La puoi vedere
dietro qualche angolo scrostato di muro,
coperto di muffa o vite del Canada,
nel fumo che esce dalle case e dalle trattorie
affacciate sulle sponde del canale
e poi moltiplicate sull'acqua
o nelle onde bagnate dalla foschia.
Venezia è anche una giacca
di velluto blu, un orologio sulla scrivania,
il tuo libro di poesie in dono,
un film visto all’aperto e commentato insieme.
È la mia voce
che rincorre ancora la tua sulle scale,
col vento che ci insegue nel tempo
per i negozi chiusi e le vie così strette.
Non so spiegare come, soffio di vita,
stella marina sul cuore,
Venezia a volte è ancora il tuo nome.
(“Da un tempo all’altro”, raccolta inedita),
testo rivisto settembre 2016 © Luciano Benini Sforza All Rights Reserved
Le vite degli altri
date » 17-07-2016 00:43
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Le vite degli altri
NYC
2015©Ivano Mercanzin
E' sempre una festa poter incontrare un tuo scatto, vuoi per i bianco e neri straordinari che ci doni, vuoi per la capacità di sintesi che si unisce ad un innato dono per raccontare quel che ti circonda e che vivi. "Le vite degli altri", non potevi trovare incipit migliore per presentare la tua visione, nelle vite degli altri noi riflettiamo sempre le nostre, proviamo a raccontarci attraverso quel riflesso in cui speriamo di incontrare un brandello delle nostre vite, per dargli un senso, talvolta semplicemente per mantenerci in equilibrio tra diverse forze contrapposte, non ultima quella che ci vede qui come altrove ad affannarci per chiamare vita tutto ciò che fa parte del nostro quotidiano divenire. Le finestre sono come occhi pronti a guardare ma anche ad abbassare le palpebre per riposare un poco, per recuperare la curiosità di penetrare sia gli abissi del buio che la luce a perdita d'occhio che ci contraddistingue come creature umane. Le vite degli altri, se fossero delle finestre e nulla di più basterebbe affacciarsi per vedere quello che ognuno ha in sè, peculiarità, caratteristiche e pregi, difetti e limiti, traendo le debite conseguenze per non commettere l'errore di tenere lontano da noi quel che accade, tanto appartiene agli altri, noi ne siamo immuni. Un'illusione spezzata ogni giorno della nostra vita dalla dura realtà che ci circonda. Eppure, per un attimo, nel tuo scatto, quella durezza sembra annullata dalla curiosità di penetrare ogni vita che incrociamo, ogni finestra che osserviamo, come fa il sole all'alba, come fa il buio dopo il tramonto. "Ogni passo deve essere lui stesso una meta, nello stesso momento in cui ci porta avanti" così con lo sguardo e tu Ivano Mercanzin fotografando questo riesci a fare.. Stupenda visione
Paola Palmaro
Più si guarda uno scatto e più si scoprono dettagli che ci fanno entrare nello sguardo dell'autore e nella scena cesellata con cura che ci stai donando con questa bellissima composizione. L'albero per esempio, i suoi rami si dirigono quasi ad abbracciare le finestre del palazzo che ha di fronte mentre i riflessi delle finestre rimandano ai suoi rami in un gioco di specchi che il sole e la luce di quella giornata ha reso indimenticabile ed affascinante come non mai. Cosa sono le vite degli altri per noi? Quando incrociano le nostre hanno improvvisamente significato e senso mentre quando le sfioriamo tendiamo ad osservarle come si specchiano i rami alle finestre di questo palazzo, con curiosità, con interesse ma sempre distaccati mentre non esiste vita che sia così lontana dalla nostra che non meriti un minimo di attenzione e cura. Lo capiamo solo quando avvengono fatti tragici e mai quando viviamo in un tempo di pace. La tua foto mi ricorda certe domeniche, al mattino, ritratte da Edward Hopper, dove non vedevi nessuna presenza umana, tutto era silenzio e sembrava che ogni persona stesse ancora indugiando a dormire, chiusa nella propria casa. Una solitudine nelle strade che era fin dolorosa e metallica, quasi gelida, mentre nel tuo scatto questa sensazione è tenuta a bada dall'albero, dai suoi rami, da quelle braccia che stanno quasi picchiettando sui vetri delle finestre per risvegliare chi sta dietro di essi. Stupenda visione, composizione, non smetterei mai di guardarla tanto è bella questa tua fotografia! Un gioco di linee e di geometrie che andando in profondità riesce a descrivere un tutto che neppure si scorge, eppure è tangibile come non mai! In questo sei sempre bravissimo e ti ammiro...
Paola Palmaro
THE NEXT STOP IS...
date » 16-07-2016 08:36
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THE NEXT STOP IS...
NYC
2015©Ivano Mercanzin
Questa scena è straordinaria nella sua asciuttezza e feroce solitudine. L'uomo addormentato, il vagone che sta correndo lungo i binari della metropolitana, le viscere di New York che riescono a deglutire vite, corpi, trasformando quei lunghissimi corridoi in vene, in arterie pulsanti con ipertensione pronta a far scoppiare le tempie, la testa, il pensiero che si nutre di tali vertigini e silenzi. Il giornale per terra, la luce intensa ed il corpo abbandonato di quell'uomo che pare vinto dalla sua stessa stanchezza. La luce rossa sulla scritta lontana che indica la direzione o la prossima fermata, i colori intensi, metallici che impregnano la scena. tutto ci fa sussultare come se fossimo lì con te e la prossima fermata fosse caratterizzata da una frenata del cuore oltre che del vagone sulle rotaie. Ascoltare le viscere di questa città è come ascoltare milioni di cuori pronti a battere all'unisono mentre tu guardi con tenerezza il sonno di un uomo vinto semplicemente dalla sua stanchezza che non sembra sapere dove sta correndo quel treno ma si sveglierà in tempo per scendere alla sua fermata, con il cervello sincronizzato da migliaia di viaggi giornalieri su quella tratta, pronto a fargli aprire gli occhi prima che sia troppo tardi. Bravissimo,immenso questo tuo scatto, ammiro...
Paola Palmaro