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Finestre

date » 21-02-2018 19:48

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Il mondo in una, mille finestre con la luce accesa o spenta. Quando si incontra con la sguardo la quotidianità resa intima dalla notte e da quei rettangoli di luce dove è concentrata la vita di ognuno di noi ecco che scatta la curiosità ed il pudore nel raccontare quel che si scorge e si vive di riflesso. Stupendo il gioco delle sorgenti di luce esterne alle abitazioni, donano profondità di campo mentre quelle alle finestre, di diversa intensità ci trasmettono il calore filtrato delicatamente dalle tendine oppure esposto con intensità dalla finestra sulla destra. L'unica a rimanere completamente chiusa sembra vivere anch'essa della luce riflessa delle altre. Interessante visione Ivano, hai reso magnificamente una scena in notturno apparentemente comune, che tutti noi abbiamo almeno una volta soppesato con lo sguardo, rendendo la scena intima e soffusa di quell'anima che rende l'uomo un animale sociale pronto ad accogliere l'altro attraverso voci, suoni, presenze costanti nella propria esistenza anche attraverso il filtro di finestre proiettate nella notte come fari sul mare per attirare la struggente nostalgia di casa propria.
(Paola Palmaroli)

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INTERVISTA: WITNESS JOURNAL - settembre 2017

date » 01-10-2017 00:12

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Raccontare il silenzio: intervista a Ivano Mercanzin
settembre 27, 2017
di Cristiano Capuano

Ciao Ivano. Cominciamo con qualche battuta su “Coney Island”, affascinante progetto che ha indubbiamente segnato gli ultimi due anni della tua carriera. Ciò che risalta maggiormente dalle foto di questa serie è la ricerca di una sorta di “segno opposto”, un capovolgimento dei motivi tradizionali che hanno costruito l’iconografia di uno dei luoghi simbolo di New York. Siamo a Brooklyn, dunque al cospetto di una geografia sociale assolutamente pop, in quanto trasversalmente e ampiamente rappresentata dall’arte, dal cinema e dalla letteratura. Da dove nasce l’impulso alla sovversione di quest’ordine semantico che risulta in un ritratto più intimo, nebbioso e malinconico di Coney Island?

E’ stato un caso, come sempre finora accade ai progetti che ho realizzato: parto con nulla in mente e poi m’immergo nella realtà del luogo dove sono, cerco di sentirne i profumi, gli odori, i colori, i silenzi, i suoni; cerco di fiutare l’aria, lasciando libere le mie emozioni. Il corpo e la mente si predispongono ad assorbire, fino a sentire a volte una scarica di adrenalina che mi fa prendere in mano la macchina fotografica. Allora inizio a scattare, a fissare, a fermare gli attimi, a congelarli, o meglio a riscaldarli, diventando tutt’uno con l’apparecchio, quasi fosse un naturale prolungamento della mia anima, del mio cuore, delle mie emozioni.
Ero per caso a Coney Island senza alcuna programmazione o preparazione e mi sono ritrovato in un mondo surreale, come all’interno di una favola o in un quadro di Chagall in bianco e nero con mille sfumature di grigio. Sono proprio le sfumature, a volte, a raccontare di più dei troppo pieni, quei delicati sbuffi di non colore che sembrano poesia. E’ per questo che amo narrare del poco, del quasi nulla, quello che non si coglie a prima vista, ciò che non è urlato ma impercettibilmente sottotono; quello che solo se si ha il tempo e la lentezza di aspettare si riesce a cogliere e quando lo si vede diventa un tutt’uno con noi stessi, osservatori sconosciuti, e per un attimo senza tempo si sta insieme, provando la stessa emozione, entrando in empatia. E’ lì che il mio racconto si compie, la mia storia assume un senso, e la gioia non ha limiti .

Parlando di questa serie, hai espresso il desiderio di “raccontare il silenzio”. Trovo sia un’espressione abbastanza calzante dal momento che le tue foto trattano con delicatezza la complessità dei vuoti e delle assenze. Non si tratta, però di una vacuità orrorifica, bensì di una catarsi invernale che libera dei luoghi ricreativi dall’asfissia dell’elemento umano. Quale ruolo giocano i soggetti anonimi ritratti in lontananza su spiagge e pontili, caffè luna park della tua Coney Island?

Raccontare il silenzio, è una definizione di un sensibile osservatore a una mia mostra; ascoltandola allora mi ha fatto pensare e mi ha spinto a osservare con più attenzione le mie foto. Era proprio vero. Le prospettive che allontanano lo sguardo, le strutture metalliche verticali che si perdono nella nebbia, le figure solitarie che passeggiano nella battigia con lo sguardo a terra, mentre il mare e la sabbia le incorniciano: tutto ciò richiama il silenzio, quell’assenza di rumore se non quello del mare che sciaborda, naturale suono che culla la mente e accompagna i pensieri , lasciandoli fluire senza interruzione, finalmente liberi di ondivagare liberamente. Ecco quindi che i vuoti o le assenze non sono dolorose, ma benefiche: è cercare di ritrovarsi e parlarsi e soprattutto ascoltarsi, entrando in perfetta sintonia con se stessi. Le figure solitarie sono elementi indispensabili nel mio racconto: perse nei loro pensieri, perfettamente amalgamate con l’ambiente intorno, in pace con loro stessi, attori ignari delle mie storie; persone che si allontanano, e che non voglio avvicinare, per rispetto, per discrezione, per riservatezza, per non disturbarli nel loro pensare. Divengo spettatore della loro esistenza, e siamo accomunati dall’attimo, dal breve spazio-tempo. Quello è l’istante che viene fissato dallo scatto, divenendo eterno, e da lì inizia la storia.

Se la memoria non mi inganna, questo progetto è nato nel dicembre del 2015 mentre ti trovavi a New York per esporre alcuni tuoi precedenti lavori aventi la città di Venezia come soggetto principale. I tuoi notturni veneziani sono parimenti evocativi di un’atmosfera metafisica e spettrale, e nascono in un contesto segnato – proprio come Coney Island – da una forte presenza umana (in questo caso di natura turistica), disinnescata, però, dalla solitudine della notte. Credi che esista una corrispondenza diretta tra le due serie?

Su invito di un amico ho esposto nel suo negozio che si trova in Madison Avenue vicino al Central Park. Provavo una strana sensazione nel vedere le mie foto in bianco e nero di Venezia che contrastavano con il caos della Grande Mela. Le foto erano affreschi notturni scattati in alcune notti invernali. La città era magica, con i lampioni tenui, il vapore del mare, l’odore di salmastro, i campi, le calli, i ponti e le persone che sembravano perdersi nella notte, assorbite dal buio come in un’atmosfera metafisica e spettrale, il ticchettio delle scarpe a fare da colonna sonora. Pensavo alla frenesia del giorno, così contrastante con il silenzio della notte e l’assenza pressoché totale di persone se non qualche coraggioso abitante notturno. Così come Coney Island, nell’estate un turbinio di colori che si trasforma in inverno in un villaggio solitario, come a reimpossessarsi del suo stato primigenio in cui la natura sembra prendere il sopravvento sull’intervento dell’uomo.

Nell’esporre le foto di Coney Island, hai idealmente separato quelle più “frontali” dei boardwalk (che ritraggono il luna park e gli esercizi commerciali) da quelle in cui a dominare è una profondità di campo che proietta lo spettatore nelle nebbie che avvolgono gli sfondi e guardano all’oceano. Credi che questo discrimine prettamente formale nasca dalla tua formazione pittorica, o il tuo modo di concepire gli spazi ha una diversa origine?

Mi sono posto molte volte questa domanda e ritengo sia effettivamente così. Infatti una frase famosa di Ansel Adams dice: “Tu non fai una fotografia solo con la macchina fotografica. Tu metti nella fotografia tutte le immagini che hai visto, i libri che hai letto, la musica che hai ascoltato e le persone che hai amato”. Ecco, racchiusa in questa frase, l’essenza anche del mio pensiero, e quindi è inevitabile che quando inquadri e decidi di fissare proprio quella parte di mondo che in quel momento ti ha colpito e senti tuo, tutto ciò vada ad attingere dal tuo mondo inconscio e conscio che negli anni ha accumulato le tue visioni. Ritengo poi che la composizione sia l’elemento principe nella fotografia, quello che ti permette di creare in un piccolo frammento del tuo sguardo un mondo intero, un racconto, una storia. Per me, la fotografia non deve rappresentare ogni cosa, anzi: si deve togliere il più possibile, lasciando solo pochi elementi sparsi che possano essere carpiti e interpretati dall’osservatore, in modo che egli possa costruire il “suo” racconto e completarlo con il proprio vissuto, filtrandolo con le sue emozioni e con il suo sguardo interiore.

Tu hai studiato disegno e pittura, ti sei interessato molto alla poesia, hai montato delle clip dei tuoi lavori sulle note di Chet Baker e altri standard jazz, e le tue foto di Coney Island sono edite accompagnate dai racconti della scrittrice Tania Piazza. Contaminazione e ibridazione tra le forme d’arte rappresentano motivi imprescindibili della tua ricerca?

Assolutamente sì: ritengo che questa miscellanea di generi sia indispensabile. Non amo gli steccati, gli orticelli, come non apprezzo questo ormai imperante obbligo di definire per forza il genere fotografico a cui si appartiene. Ecco quindi che la musica, l’arte, la poesia e la letteratura sono componenti imprescindibili al mio modo di operare: è da lì che io traggo le mie ispirazioni per le fotografie, è in quell’insieme di stimoli che arrivano poi i miei progetti, naturalmente contaminati dall’ambiente in cui mi trovo in quel momento e dalla persone che vi abitano. La mia ispirazione si alimenta grazie a queste arti, senza le quali ritengo saremmo tutti più aridi e infelici. Il jazz accompagna spesso i miei racconti fotografici, credo sia il genere che meglio li sposi; tuttavia, non disdegno tutti gli altri, compreso il rap, che mi piace molto in questo momento, in particolare quello italiano e di bravissimi rapper soprattutto immigrati (Ghali, Maruego, Amir, Kuti, per esempio). Mi piace ascoltare la musicalità e in particolare analizzare la semantica del loro linguaggio di stranieri italiani, che racconta storie e, attraverso le parole, ci permette di conoscere i loro pensieri. Ho in mente un progetto fotografico molto ambizioso a riguardo e spero di realizzarlo.
Inoltre, inizierò a breve il Masterclass Pro-Photographer di Paolo Marchetti, pluripremiato fotografo internazionale, per apprendere i metodi del reportage e applicarli anche in progetti fotografici con alcune O.N.G. Internazionali con le quali sto già programmando alcune iniziative.
Con Tania invece è nata per caso una collaborazione e un’amicizia, a lei sono piaciute le mie foto e a me la sua scrittura; senza alcuna programmazione, quando vedeva qualche mio scatto che le raccontava una storia, iniziava a scriverla: ecco quindi “Just smile”, ispirato ad alcune foto di The Face o “Infinità” ispirata a una foto di Coney Island, e molte altre fino ad arrivare a un libro con 28 racconti e altrettante scatti in corso di pubblicazione (con una casa editrice di Bergamo); il titolo sarà “L’anima fotografata” e a breve inizieremo a presentarlo.

Soffermiamoci su un’altra nota stilistica della tua opera. Tu hai lavorato molto in bianco e nero, ma in “Coney Island” non sono ragioni prettamente cromatiche a determinare il senso di sospensione delle tue atmosfere; basti pensare alla Coney Island di Bruce Gilden degli anni ’70/’80, interamente rappresentata in bianco e nero, ma ben più estiva, caotica e antropocentrica. Nella tua personale idea di fotografia, il bianco e nero è causa o conseguenza?

Bruce Gilden ha fotografato in bianco e nero e negli anni 70 quello che di fatto sta ancor facendo oggi a colori: visi grotteschi in primo piano, corpi sformati, scene di vita esasperate dal suo taglio personalissimo e unico. Il suo bianco nero non aggiunge né toglie nulla alle sue immagini già “cariche” e “piene”.
Il mio racconto è del tutto diverso: non ci sono primi piani, ma panoramiche, visioni che si allontanano rispetto a inquadrature “strette”. Il mio è un racconto lieve, leggero, quasi impalpabile: il bianco e nero è il naturale “colore” a descrivere tutto ciò, con delicatezza, in maniera poetica e, in questo caso, quasi privo di contrasti. Mi piace l’idea che la sensazione, osservando i miei scatti, sia quella di foto d’antan, un raccontare la contemporaneità con uno stile retrò. Riprendendo una raccolta di poesie di Ferlinghetti, mi piace definire la “mia” Coney Island “il luna park dell’anima”.

“Il bianco e nero racconta il mio mondo interiore, le emozioni e i sentimenti più profondi […] ricco di contrasti, aspro, riflette a pieno il mio carattere solitario”. So che queste parole di Daidō Moriyama ti hanno molto colpito e ispirato, e credo che quest’idea di solitudine sia un’assoluta protagonista di un’altra tua serie newyorkese: “The Face(s) of NYC”. Qui ti sei direttamente misurato con la street photography in bianco e nero – di cui Moriyama stesso è maestro – ed hai efficacemente ritratto il senso di incomunicabilità. Di quella folla cosmopolita e solitaria che popola New York. Quale è stato il tuo approccio ai soggetti? Hai eliso o ricercato l’interazione con loro?

Mi piace molto questa definizione di Moriyama, ma non posso definire il mio carattere solitario; al contrario, mi sento molto socievole, anche se a volte amo fuggire dalla folla e in quel momento ciò che preferisco per eccellenza è fotografare. Non amo infatti condividere il tempo dedicato alla fotografia con altre persone; quando sono solo, quando sento quell’armonia che mi pone in equilibrio con quanto mi sta intorno, la creatività si manifesta in maniera prepotente e percepisco una sensazione che mi avvolge completamente. Il progetto The Face è nato per caso: mi spostavo dal Queens, dove alloggiavo, a Manhattan, e tutti i giorni facevo il pendolare mescolandomi alle persone. Ho cominciato a scattare perché le immagini mi sono venute incontro, mi catturavano e non potevo non fissarle e ciò è molto diverse dall’allontanamento che caratterizza Coney Island. Qui abbiamo un avvicinamento, un faccia a faccia: la macchina appoggiata al petto per non farmi notare e scattavo, passando inosservato, potendo cogliere così le persone nella loro naturalezza, senza forzature o travisamenti che ne avrebbero modificato le espressioni. Ecco forse il perché di questo senso d’incomunicabilità che tu hai captato, uno spontaneo distacco di chi quotidianamente si trova a ripetere gli stessi riti e le stesse abitudini.
Mi sono sentito parte di loro, ho cercato di capire, ho tentato di mettermi in sintonia con le loro abitudini, ho scrutato espressioni cercando di fissarle, riportando a casa quel momentaneo “vissuto” insieme.

Come ultima battuta cercherei una liaison tra queste tue due serie newyorkesi. Vorrei chiederti quale credi sia il rapporto tra loro, e se l’alienazione e il senso di isolamento siano comuni denominatori che obliterano le differenze tra la prossimità fisica, nel caso di “The Face(s) of NYC”, e la distanza dai soggetti, nel caso invece di Coney Island.


Le due serie sembrano essere state prodotte in tempi diversi, invece sono state scattate la stessa settimana di dicembre del 2015 ma con stili differenti: Coney Island con panoramiche e lontananze, figure appena abbozzate, a volte perse tra la nebbia, mai ravvicinate, come sospese in un paesaggio surreale, onirico. The Face, all’opposto, con figure ravvicinate, quasi in primo piano, a volte appena contestualizzate. Sono linguaggi diversi, ma accomunati dallo stesso senso di smarrimento, anche se la solitudine di Coney Island sembra benefica, ricercata come un toccasana, per armonizzarsi con se stessi e la natura d’intorno.
The Face presenta invece una solitudine più profonda, di smarrimento, una solitudine urbana , fatta di indifferenza, di distacco emotivo, pur nella vicinanza con gli altri, come abitanti di microcosmi autonomi e indipendenti. Uno stare con gli altri ed essere altrove. Una vicinanza fisica e una lontananza mentale.
Ecco allora che il fotografo decide in quel momento cosa rappresentare, sono sue le interpretazioni, sue le personalissime scelte di raccontare proprio quello: tutto è funzionale alla sua narrazione e al taglio che vuole dare alle immagini.
Le foto quindi raccontano storie e mondi altrui, ma nel profondo è la tua storia che stai raccontando e il tuo svelarsi che si compie.

WITNESS JOURNAL : L'INTERVISTA

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Sirmione 2017

date » 02-07-2017 08:32

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Il colore dona un'aura di magia e di leggenda a questo luogo. le pietre paiono scolpite non dall'acqua ma del respiro stesso del cielo, delle sue correnti, di quel vago sentore di infinito che si insinua in ogni anfratto! Bellissima la luce tenue, quel rosa polvere che si stempera nelll'avio e nel celeste. tutto dona calma, una sicurezza che avvince ed incanta! Bravissimo nel cogliere questa pace e la bellezza del luogo! Talvolta pensiamo che i luoghi meravigliosi siano lontani ed invece spesso sono più vicini di quanto ci si aspetti, tu Ivano ce lo hai dimostrato con questo tuo scatto!
(Paola Palmaroli)

Non finirei mai di osservare questo tuo scatto Ivano Mercanzin! Sei riuscito a rendere calde e morbide sfumature di colore che spesso accompagnano l'inverno e non l'estate. Ci sono sentimenti che sono perfettamente ascrivibili a determinati colori, quel che non si coglie facilmente è il contrappunto ideale tra natura e ciò che smuove l'animo umano senza aver bisogno di urlarlo o di esprimerlo con veemenza. Questo si prova ad immergersi in tale atmosfera, i toni di colore e le forme che vengono scolpite da una simile tavolozza di sfumature e di colori ghiacciati, metallici, finiscono per smuovere emozioni profonde ma non esplosive come certe eruzioni vulcaniche. Tutto rimane composto, lieve e quasi immobile. Ci sono volti che con un leggero battito di ciglia, di una ruga d'espressione presso le labbra o sulla fronte riescono a raccontarti tutto ciò che sentono senza aprire bocca, ecco, nel tuo paesaggio si osserva la stessa magica capacità di dire tutto con poco, di fermare il tempo senza strattonarlo, semplicemente cogliendo quel momento preciso del giorno dove tutto appare calmo ed invece annuncia sommovimenti profondi sia in cielo che in terra, che sulla superficie del lago. Basta che la luce maturi, che il sole fenda quella foschia morbida all'orizzonte e quei toni di avio, di rosa, di grigio-celeste lasceranno il campo a colori più accesi e veementi. L'alba di un nuovo giorno ha questa grande dote: sussurra e non grida mai, eppure come si percepisce e come ti cambia il modo di sentire e di vedere, ti lascia senza fiato senza volerlo, come nel tuo scatto che adoro! Complimenti Ivano, spesso tornare su una fotografia te la apprezzare ancora di più, sempre che ce ne fosse il bisogno! :) Come rileggere a distanza un buon libro.
(Paola Palmaroli)

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RACCONTO: Infinità

date » 05-03-2017 09:36

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di Tania Piazza
Stare appiccicati a qualcuno, si può. Io l'ho fatto per anni, fino alla settimana scorsa: esattamente sei anni e ventidue giorni. Senza farmi vedere, senza che lei lo sapesse, almeno non più. All'inizio, gliel'avevo detto ben chiaro: "Non ti abbandonerò mai, non ti lascerò andare nell'oblio. Sarò sempre con te, anche se non mi vuoi più." Che poi, non è stata lei a decidere che dovevamo dividerci; è stata la vita stessa a farlo. O meglio, la mia vita ha portato lei a dirmi addio. Ci siamo conosciuti che io ero già sposato, con due figli. Perchè non potevamo incontrarci prima? Dopotutto, era con una come lei che avrei voluto costruire una famiglia. Era con una come lei, che avrei voluto camminare giorno per giorno. Alla fine, quello che mi ha fregato è stato quel "come lei". L'ho compreso dopo, che esiste solo una Lei, e qualcuna, forse, come lei. Con la quale si può stare bene, ci si può sposare e ci si può anche fare dei figli; ma quando poi la vita ti mette di fronte a Lei, allora capisci tutto. E vorresti poter tornare indietro, per compiere di nuovo le tue scelte, ma sai che non è possibile.
Quando ci siamo incontrati, ho provato a far finta di niente. Ho proseguito senza cambiare nulla. C'era solo Lei, in più, ma non credevo che questo sarebbe bastato per smontare il mio equilibrio. All'inizio, ho chiuso gli occhi, semplicemente: Lei mi cercava, ma io fingevo di non vederla. Credo sia stata la vita stessa a ingiungermi di aprirli, quegli occhi, quella stessa vita che oggi mi spinge a chiuderli di nuovo. Resisti, per un po', ma poi non ne hai più, nulla può contrastare ciò che porta in sè un vago sapore di infinito. E allora lo accogli in te, e ti accorgi che quello che prima chiamavi vita, altro non era che una brutta copia, una prova scritta in fretta, d'istinto, da riportare prima o poi in bella. Pensi ai tuoi figli, pensi a tua moglie. Alla casa. Alle vacanze. Alla cena da preparare. Agli acquisti da fare. All'erba del giardino da tagliare. In mezzo a tutto quello che è vita, vorresti metterci Lei. Come se nulla fosse, tra una lista della spesa e i bambini da portare a scuola.
Ma Lei non ci sta, e allora glielo spieghi che non puoi cancellare anni di vita vissuta in nome di una promessa di anni di vita da vivere. Glielo dici che non puoi immaginare di ritornare a casa la sera, dopo il lavoro, e non sentire più i rumori dei tuoi figli che giocano tra di loro e rinunciare a vedere la scintilla che, in mezzo alla stanchezza di tutto il giorno, anima comunque di gioia gli occhi di tua moglie. Lei, dove potrebbe stare in tutto ciò?
Non ci sta, punto. Ecco perchè decidi che le rimarrai appiccicato per sempre, a distanza, addosso come fosse vero, ospite nel tuo stesso cuore. L'ho portata da allora, dentro di me, e me la sono tenuta stretta ogni giorno. Per sei anni e ventidue giorni, in ogni momento della mia vita. E' come se l'avessimo vissuta in due. Lei forse nel frattempo se l'è dimenticato, ma il mio cuore ha sempre battuto doppio, a ogni battito: uno per me, e uno per Lei. Gliel'avevo giurato, che non l'avrei lasciata andare mai, ed è questo che ho fatto. Anche quando ho saputo che si era fidanzata. Anche quando mi hanno detto che cercava casa, per starci con lui. Non ho mai visto una fine, in questo, solo un naturale proseguio delle nostre vite. Svegliarmi alla mattina sentendola dentro di me; sognarla, a volte, la notte, per vivere degli sprazzi di irrinunciabile felicità. Non ho mai visto una fine, mai.
La scorsa settimana, però, ero in coda per un hamburger, come al solito: la mia pausa pranzo veloce, qui sul lungomare. I gabbiani hanno la voce acuta, e a volte ho l'impressione che possano scheggiare il cielo; mi piace starmene qui ad ascoltarli, mentre mangio, prima di tornare in ufficio. E' come se ogni giorno la perfezione cristallina del paesaggio venisse messa in pericolo dalle loro urla, e amo vedere come questo non succeda mai. Mi metto in un angolo, a osservare le persone che passano, veloci nelle loro vite diverse. D'estate, poi, l'allegro brulichio di gente fa sembrare impossibile essere triste, anche per un solo, isolato attimo. Amo questo luogo, in ogni stagione. Mi riporta alla gioia dell'infinito. Mi riporta a Lei.
Ma la scorsa settimana, appunto, mentre ero in coda per il mio hamburger, ho sentito casualmente due donne che, chiacchierando, parlavano di Lei. Credo fossero colleghe, perchè la conversazione verteva sui turni da coprire e sul lavoro che sarebbe rimasto arretrato. Ci ho messo un po' a unire le parole che stavo ascoltando con l'adorata coinquilina del mio cuore. Poi, ho capito: Lei è incinta. Aspetta un bambino. Avrà presto un figlio. Condividerà la felicità così definitiva di diventare mamma con un lui che non sono io. I suoi occhi parleranno a un altro uomo, raccontandogli cose che ho sempre immaginato avrebbero un giorno raccontato a me. E' strano come certe cose si capiscano in un lampo, all'improvviso: il mio cuore l'ho sentito uscire dal petto, e credo ce l'abbia messa tutta per parlarmi, per rubare un po' della mia attenzione, per farmi finalmente ragionare. L'ho visto prendermi in disparte e mettermi un braccio attorno al collo, abbassare il tono di voce e sussurrarmi nell'orecchio ciò che il mio cervello non aveva mai voluto ammettere: da sei anni e ventidue giorni ero solamente in attesa. Avevo parcheggiato Lei nel mio cuore con la speranza di fermare il tempo, vivere tutto quello che mi restava di questa vita con mia moglie e i miei figli fino alla vecchiaia, fino alla morte, e poi ritornare indietro, riprendere Lei da dove eravamo rimasti e ricominciare a vivere di nuovo, la vera vita che stavamo aspettando. Attendevo di vederla io, quella luce di felice incredulità, quando mi avrebbe annunciato di essere incinta. Attendevo di vedere nascere quel figlio del nostro amore. Di vederlo crescere, di tornare a casa la sera dopo il lavoro e ascoltare la sua voce allegra, e cogliere la scintilla di gioia che, nonostante la stanchezza della giornata, avrebbe abbellito gli occhi di Lei, al mio rientro. Attendevo di programmare le vacanze, gli acquisti, il dentista e la partita di calcio della domenica. Attendevo di vivere l'infinito.
Quel giorno, sono uscito dalla coda senza hamburger, e ho iniziato a camminare sul lungomare. Lo faccio tutti i giorni, da allora. Tengo la testa bassa, per non perdermi nessuno dei granelli di sabbia che riempiono la spiaggia. Osservarli, mi riappacifica col mondo. Provo a contarli, ma spesso mi perdo e torno indietro e questo mi dà serenità: ce ne sono miliardi, e ovunque volga lo sguardo la loro presenza mi calma, mi ridà fiducia in qualcosa che non conosce fine. Immagino di camminare per chilometri e chilometri e di ritrovare sempre la stessa sabbia sotto ai miei piedi, ascoltando il suono del mare, che continua a portarmene di nuova. Ciò che fino alla scorsa settimana dimorava dentro di me, rintanato in un angolo del mio cuore, si è spezzato, d'un tratto: sei anni e ventidue giorni interrotti senza un preavviso. Credevo bastasse stare appiccicati a qualcuno dentro al cuore, per mantenere infinita la promessa di vita. Credevo che, anche se Lei non ne era consapevole, avrebbe aspettato per sempre, con me, quello che sarebbe venuto. Camminavo dentro a questa vita con questa promessa di infinità. Ora, il mio cuore ha bisogno di un nuovo infinito; conto i granelli di sabbia, e mi pare di poterlo riempire così.
Qualcuno, ogni tanto, accenna un saluto incrociandomi. Vede un uomo solo - solo come non sono mai stato - con la testa bassa e lo sguardo rivolto al suolo. Mi sente mormorare con un filo di voce, perchè cammino contando i granelli, e ogni giorno proseguo dal numero a cui ero arrivato il giorno prima. Penserà che io sia malato, come sono malate quelle persone che non hanno nessuno a cui raccontare di sé. Ma io mi sto curando, già, e il giorno in cui non verrò più qui sul lungomare a contare, sarà forse il giorno in cui inizierò davvero a vivere la vita che sto vivendo ora. Mi sveglierò la mattina senza sentire il vuoto in un angolo del mio cuore, e farò colazione mangiando solo per uno. Andrò al lavoro senza accumulare nella testa le cose da raccontare poi a casa e rientrerò la sera, senza cercare più la scintilla negli occhi di mia moglie, perchè non avrò più nessuno a cui paragonarla. Andrò a dormire sperando di non sognare, perchè sarò sicuro che nei sogni non sarò mai più felice.
Ma finchè i granelli di sabbia non si esauriranno, io tornerò qui, in cerca dell'infinito. Quello che mi ha portato avanti in questi anni, quello che tenevo appiccicato al cuore. Perchè l'infinito, se anche la vita, a volte, fa di tutto per farlo vacillare, non dovrebbe finire mai.


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Memoria

date » 20-12-2016 07:23

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Ci sono odori, sapori, luci ed ombre che appaiono così scontate da risultare ogni volta un deja vu di incommensurabile fascino ed invece sono la forma più antica di un riflesso cui noi umani doniamo le fattezze della nostra storia, piccoli rimandi che costituiscono la differenza ed il valore aggiunto tra passato e presente, irrinunciabili. Ci sembra di scorgere quel preciso angolo da cui sbucherà una persona nota, oppure un amico, viene evocata perfino nella tua visione il profumo di una giornata che è rimasta per sempre incastonata nella memoria da costituire la trama di un tessuto di desideri mai sopiti. Desideri semplici, articolati in modo naturale come solo la vita all'aria aperta, in una cascina, seguendo i ritmi del giorno e delle faccende domestiche possono realizzare. L'odore per esempio di legna che arde in un camino, quello della polvere, della terra impregnata delle correnti dei venti e degli esseri viventi che fanno parte di quell'angolo di mondo così speciale per la sua diretta e schietta semplicità. Nessun rumore strano, nessun gesto nervoso o di stizza, esclusivamente rituali che appaiono consueti ed irrinunciabili se li si vive direttamente, se si osservano con rispetto e dignità. Una vita dura ma regolata da ritmi rassicuranti, da comunicazioni essenziali e sincere, da uno stile di vita che appare a noi spartano ed invece è fondamentale per non perdere mai quel che conta veramente per ogni singolo individuo: esistere! Qui tra queste mura e sotto quel cielo non si sopravvive a se stessi ma ci si impara a conoscere fin nelle fibre più profonde del nostro essere. Tu ci hai regalato con la tua visione un pezzo di mondo che ancora esiste e con tutti i cambiamenti affrontati non è più lo stesso ma ha inscritto nel suo DNA la parte migliore degli esseri umani, priva di maschere e di inutili orpelli, un susseguirsi interminabile di giorni, di azioni, di abitudini, che conservano la nostra forza ed energia primigenia. Ammiro come riesci sempre a farci entrare in spazi e vissuti di imprescindibile valore sia umano che culturale, sai raccontare la storia di un luogo come pochi altri, ne raccogli sempre l'essenza senza indulgere nella tentazione di essere stereotipato o scontato. La poesia di un luogo o del suo vissuto sta proprio nel tuo sguardo severo e rigoroso ma di un'umanità che fa tremare anche la carne sulle ossa di chi ha l'animo disposto a sentire il battito del cuore della società in cui è nato e vissuto.
di Paola Palmaroli

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RACCONTO: Ho scelto la via dei colori

date » 14-12-2016 23:37

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di Tania Piazza

Eccolo che arriva, il primo raggio. Mi affretto ad alzarmi dal mio angolino, è proprio questo momento quello che da' il la a ogni cosa. Raccolgo il vaso colorato da terra e lo sposto dall'altra parte, davanti alla finestra. Ho creato dei piccoli altari per lui, sono semplici cassette di legno vecchio, niente di che, ma mi pare che ci sia una connessione, tra di loro. Il legno è accogliente, mi ricorda il nonno, quando da bambina mi faceva entrare in casa e mi sistemava sulle sue ginocchia senza parlarmi. Io poi restavo lì, calma e tranquilla. Sentivo il suo respiro che poco per volta diventava regolare e sottile e mi sembrava strano, lui così grande e vecchio con un'aria così leggera dentro. Però forse era proprio quel particolare a calmarmi in quel modo. La mia energia usciva rallentando, per una volta, e incontrava il suo respiro quieto. Il legno di queste cassettine mi riporta lì, e mi sembra che anche il mio vaso di vetro possa stare meglio.
E' l'alba e dormono tutti, ognuno a modo suo. La notte per alcuni è ancora un inferno, un tratto attraverso il quale non sai se riesci a passare. Lo è stato anche per me, a lungo, e non sento nessuna mancanza di quelle sensazioni. Il buio ha una forza tutta sua, è lo stregone che annienta le anime e svuota i cervelli, riempiendoli del male. Tutte le volte che sono tornata a cercare la bottiglia è stato sempre di notte. Chissà perchè, la luce del giorno fa vedere le cose più facili, ti senti forte e ti pare di poter battere qualunque demone maledetto. Poi invece, di notte, il maledetto torni a essere tu e la forza svanisce.
Comincia a prendere vita la parte bianca. Pura e bella. Ormai, ho imparato l'esatta angolazione con cui devo porlo alla luce, per far sì che i colori arrivino nell'ordine che voglio io. All'inizio non mi era concesso venire qui così presto. Le regole, dicevano. Io mi arrabbiavo, le regole mi fanno arrabbiare. Non c'è mai stato nulla di regolare, nella mia vita, ed è proprio questa la causa di tutto. Sarebbe stato tutto molto più semplice se avessi sempre avuto il respiro del nonno a fianco, mi avrebbe di sicuro fatto vedere la via da percorrere. Invece, ti ritrovi solo d'un tratto e ciò che ti è sempre parso facile diviene all'improvviso difficile. Il mondo mi ha fatto paura, non sono tutt'ora convinta che sia un mondo buono, questo. Lo fosse per davvero, non sarei sola, ancora. Sarei con lei, e magari sentendo il suo respiro calmo come quello del nonno mi calmerei anch'io. La calma, ora, invece, arriva con le medicine che ci danno. Alla fine, sono diventate quelle le nostre regole, e non i loro stupidi orari. Ho insistito tanto, e alla fine l'hanno capito: dopotutto, non do fastidio a nessuno, messa qui in questo angolo. Non accendo nemmeno le luci, e forse è anche per quello che mi lasciano star qui, adesso.
Seguire il percorso dei raggi del sole mi permette di darmi una regolata. Ma stanotte ho voluto andare oltre e, come ieri notte e quella prima ancora, sono stata qui. E' il primo mese che lo faccio, ma ora che ho scoperto che anche la luna piena dà vita al mio vaso, nessuno mi smuoverà più da qui. Avevo paura, all'inizio, sempre per colpa di quel maledetto buio. Poi, mi son detta che tanto bottiglie non ce ne sono e che al massimo avrei potuto mettermi a bere dell'acqua. E poi, non c'è silenzio, qui, la notte. Ognuno credo faccia rivivere i suoi pensieri e quello che si può ascoltare è un suono basso e diffuso, fatto di lamenti e risa, di sogni che tornano e sogni che cadono a terra, e fanno rumore. Quando le infermiere passano a controllare, non si accorgono di nulla. Ognuno di noi ha imparato a tener ben nascosto ciò che lo divora, ma le mie orecchie, che sono orecchie che han vissuto il male, lo riconoscono.
Per stare qui di notte ho dovuto invertire le mie abitudini. La stanza ha due grandi finestre, una opposta all'altra. L'angolo in cui mi sono sistemata è quello più stretto; mi piace lì, proprio perchè mi abbraccia, in qualche modo, non ho spazio per perdermi e mi tornano in mente ancora le gambe del nonno. Ho un piccolo materasso che piego a elle se voglio stare seduta appoggiata al muro, e distendo a terra se voglio stare buttata. La coperta è verde scuro come il fondo del mare e ha tante sottili frangette alle due estremità. La finestra vicino al mio angolo è quella che vede la luna; quella di fronte vede il sole. Quindi, tre sere fa, per la prima volta ho spostato il mio vaso per metterlo ad aspettare la luna. Me lo son tenuta vicino, una mano a sentire il freddo del vetro e gli occhi rivolti al cielo. Mi è piaciuta questa sensazione, era come se il freddo del vetro fosse il freddo della notte, penetrata dentro qui. E' stato intenso. Vero, come poche cose qui sembrano essere. La luna si è fatta aspettare un bel po'; in quelle prime ore ho avuto paura di essermi sbagliata, e mi è venuta più volte la tentazione di tornare in camera mia. L'infermiera è passata spesso a chiedermi se stavo bene, se magari non avessi cambiato idea, che mi avrebbe riaccompagnata lei a letto. Ma non ho voluto dargliela vinta. Loro fanno sembrare che le cose che diciamo noi siano assurde, come se i nostri pensieri nascessero da luoghi della mente diversi rispetto ai loro, più sbagliati. Ma non è sempre così. Le persone come me a volte sono più vicine alla verità di chiunque altro.
Quando la luna alla fine è arrivata, è stato come quando mi danno il sonnifero e io non voglio lasciarmi andare all'effetto della medicina: le mie braccia e le mie gambe erano stanche per tutte le ore passate in questa scomoda posizione, ma il mio cervello era vivo! Il modo in cui la luce ha illuminato il vaso mi ha riempito di una gioia che solo da quando lei è nata conosco. Il primo colore a prenderla è stato come al solito il bianco, mi piace ogni volta iniziare da lì. Mi ha ricordato il suo viso innocente e piccino, la pelle nuova, sulla quale nessun male ha ancora lasciato il segno. Poi, è arrivata al verde, ed è il colore che avranno i suoi occhi, quando sarà calma e nessuno la farà arrabbiare, quando la vita sarà buona con lei e niente le impedirà di viverla. Alla fine, ecco il rosso. A differenza della sfumatura che gli dà di solito il sole, la luna lo ha riempito di ombre. Il sangue sarà dunque meno acceso, e questo vuol dire che soffrirà meno.
Mi alzo a spostarlo più avanti, scrivendo mi son persa e il primo raggio è già diventato grande - la luce cammina veloce, a volte, e questo mi stupisce. Eccolo, che abbraccia il verde, lo attraversa e lo fa divenire un gioiello. Brilla di mille sorrisi, e son quelli che lei avrà quando sarà felice, quando non ci sarà nessuno tra lei e i suoi pensieri. Non come qui, dove sono sempre osservata quando scrivo. E' come succedeva a scuola, come se loro volessero intrufolarsi tra i miei pensieri, quando nascono nella testa, e le pagine del mio diario, quando diventano parole. Ecco perchè me ne sto sempre qui a scrivere, perchè sono sola e nessuno me le può rubare, quelle parole, prima che si depositino sulla carta, dove potranno stare al sicuro. Un giorno, magari, le farò leggere a lei, e questa è l'unica forza che mi spinge in avanti. Le racconterò di come stavo bene, sulle gambe del nonno, di come il suo respiro lento mi faceva vivere e di come quel respiro mi è poi mancato. Di come mi son sentita soffocata, senza di esso, perduta e fragile. Le dirò che l'alcol ha preso il posto di quel respiro con una violenza che mi ha strappato l'anima, senza pietà. Sono stati proprio anni di non respiro, tristi, in cui la mia vita consisteva nel non vivere, nel cercare di distruggere ogni pensiero ancora prima che nascesse, buttandoci sopra alcol, tanto alcol, centinaia di bottiglie bevute senza sentire un sapore, se non quello dell'inferno.
E ora eccolo, il rosso, che come ogni giorno, inesorabile, prende colore. Anche se mi dimentico di spostare il vaso, anche se mi rifiuto di farlo, eccolo che arriva, implacabile. Il sole è crudele, come la vita, non ti dà scampo nemmeno se lo implori. Potrei fare a meno di venire qui, potrei starmene in camera a letto, con le finestre oscurate fino a che non si fa sera. Ma non vedrei il mio vaso che prende vita, non vedrei il bianco che mi parla della sua pelle pura e il verde che mi dice che i suoi occhi son felici. Potrei fuggire via con il vaso stretto tra le mie braccia prima che il sole arrivi alla striscia di rosso, prima che quel colore di sangue mi ricordi che sono una dannata. Ma non servirebbe, so che questo non cambierebbe le cose.
E' stato fantastico, crearlo. L'artista che ci ha insegnato a lavorare il vetro ce l'aveva detto, quel giorno che è venuto a farci visita. Ci ha spiegato che ognuno di noi avrebbe trovato un mondo nuovo, lì dentro e che la scelta dei colori e della forma parlava proprio della nostra vita, senza lasciare nulla al caso. Chissà perchè, il primo colore che mi è venuto in mente non è stato il rosso, ma il bianco. Ero stupita di questo e gliel'ho detto: mi sarei aspettata che prima di tutto volesse uscire il male, dalla mia testa, ma lui mi ha guardata per qualche secondo e poi mi ha sorriso. E' stato lì, che mi è venuto in mente il verde. Perchè ho capito che negli occhi di qualcuno ci può stare un sorriso, anzi anche più di uno. Dieci, cento, mille sorrisi diversi, perchè la vita a volte fa sorridere. Queste cose non me le ha dette lui, ma ho capito che era quello che voleva comunicarmi. Poi, con una voce molto calma, mi ha risposto. "Lascia che i colori ti facciano star bene. Loro sanno come fare".
E allora ho capito. Ho capito che dovevo lasciare andare i pensieri, finalmente anche in quegli angoli che avevo blindato nella mia testa. Ho capito che fino a che non avessi vomitato fuori tutta lo schifo e l'amarezza, non sarebbe nato nulla di bello. Ho pensato al rosso, il terzo colore che ho messo nel mio vaso, una macchia informe che ho creato per ricordarmi per sempre del periodo in cui la mia mente non viveva, soffriva solo, in silenzio, annegata dall'alcol e dall'inutilità. E' stato proprio lì che ho toccato ogni fondo possibile, mi sono fatta male e il sangue non è mancato, ho vissuto con persone senza un'anima, completamente svuotate di ogni ragione di vita, ragazzi come me, giovani e dannati, imploranti forse solo una salvezza o una fine veloce. Ho conosciuto Marco e con lui la discesa agli inferi è arrivata in un lampo, ci siamo alimentati di un amore che non aveva all'interno nessuna ragione concreta se non quella di danneggiarci a vicenda, rendendo sempre più vivo quel rosso che non voglio più dimenticare. Poi, è nata lei e poco per volta sto iniziando a comprendere il significato di tutto il mio percorso.
Oggi sono sola, ancora, senza lui e senza lei. Nei miei diciassette anni non ho conosciuto altra condizione, o quasi. Sono volata all'inferno per cercare una compagnia, qualcosa o qualcuno che potesse stare attaccato alla mia anima, senza riuscirci mai. Ho implorato chiunque mi ritrovassi a fianco di farmi del bene, di farmi sentire meno inquieta, di far passare le cose sopra di me senza distruggermi. Non ho avuto fortuna, credo, ma non ho perso la speranza. Anzi. Mi sono ricordata proprio l'altra notte di una cosa che mi ha sussurrato il nonno, un giorno, all'orecchio, finchè me ne stavo sulle sue ginocchia. "Ricordati di cercare la via", mi ha detto, "perchè a volte non avrai gli occhi abbastanza spalancati per vederla bene". Ora, qui in questo posto, so che dentro ai miei occhi ci sono anche quelli di mia figlia, anche se lei non sta con me. Sono diventati più grandi, e, spero, più capaci. Non è ancora finita, lo so, il mio inferno mi attende ancora, da qualche parte, osservandomi. Ma qui non sto poi così male e ogni giorno mi perdo nel cammino della luce che fa vivere il mio vaso, e mi fa tenere per mano, vicini, i colori della mia vita.

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C'era una volta oggi

date » 10-12-2016 17:13

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Con John Ernst Steinbeck Ivano Mercanzin tu ha in comune la forza narrativa dello sguardo, ogni volta che incontro un tuo scatto rivedo le immagini descritte attraverso le parole di questo scrittore americano in uno spazio tempo dilatato e sovrapponibile grazie a linguaggi diversi e complementari come pochi altri. Come se quel che è accaduto ed è stato vissuto quasi un secolo fa si fosse ripresentato ai tuoi occhi e tradotto in fotografia risultasse speculare, un complemento di moto da luogo che distribuisce la storia ed i suoi ritorni con estrema accuratezza, chiedendo solo la stessa lucidità con cui ognuno di noi si appresta a viverla per essere trasformata in memoria. Tu non sei Steinbeck ma possiedi la stessa forza e poesia, la stessa semplicità e sincerità, quel tipo di immediatezza che ci allena a guardare quel che abbiamo davanti a noi senza chiedere ad un paesaggio di trasformarsi nell'umore che di volta in volta lo veste a seconda di chi lo fruisce. Il luogo che hai ripreso, ogni dettaglio da te fissato nello scatto non sono parte di un incantamento ma una composizione. che si fa portatrice sana di un "vedere" per guardare all'interno ed all'esterno di vissuti, ritrovando se stessi e scoprendo quel che conta veramente nella propria esistenza. Guardando con i tuoi occhi si impara a scremare tutto ciò che non è necessario, dando alle ombre il significato che possiedono senza accorciarle od allungarle come se fossero l'orlo dei nostri sensi, un abito troppo lungo o troppo corto da modificare continuamente. La lucidità con cui tu posi il tuo sguardo su un luogo o l'umanità che lo vive è pari alla bellezza della descrizione di quel che provi osservando la realtà circostante. Gli occhi e l'atto del guardare fanno parte del volto umano, meno li trucchi e li abbellisci e più ti ripagano con la loro sorprendente espressività ricca di un vissuto che fa suo il valore aggiunto di ogni ruga, di ogni umore sedimentato tra le pieghe della pelle, di ogni luce ed ombra che hanno trovato il loro punto di forza in una contrazione muscolare. Più sei sincero, anche nel guardare e più sei consapevole degli infiniti universi che si svelano e si compiacciono di farsi guardare da te. L'atto del guardare traduce diverse grammatiche e sintassi cercando di mettere a nudo l'animo di chi usa la vista, riuscendo a mostrarci cosa conta o vale per questo individuo come pure le forme ed il contenuto di quel che raggiunge il nostro cervello, mettendo in luce vissuti, piani temporali e spaziali, trasformazioni, un divenire che cerca un proprio spazio per dilatarsi o contrarsi, per ospitare al meglio chi lo abita. La potenza espressiva della fotografia sta proprio in questo, negli occhi di chi la elegge a scrittura di luce per mostrare e non dimostrare la dinamica che coinvolge sensi e natura, corpo e mente, visibile ed invisibile, ago e filo con cui viene cucito il rapporto tra entità diverse. Ci sono spazi e tempi lontani gli uni dagli altri, con cui tu hai fissato per sempre questo angolo d'universo che comunicano fra loro grazie alla fotografia, dandoci la certezza che sono esistiti, che esistono e fanno parte delle percezioni di chi li attraversa.,Tutto scorre, il tuo sguardo mentre è in continuo divenire riesce a fissarsi per un istante su un luogo e decide di sostarvi per raccontare la sua storia, per non perdere mai il coraggio di esistere accanto al fiume invisibile dell'esistenza stessa che a tratti dona squarci di visibilità, intuizioni deflagranti per comprendere le forme o la materia di cui è costituita la realtà e la sua storia in cui viviamo e che ci viene tramandata di generazione in generazione. Tutto questo per dirti semplicemente "bella foto" :)
(Paola Palmaroli)

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Paola Palmaroli mi racconta...

date » 03-11-2016 23:18

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Ivano Mercanzin riesce a rendere un luogo straordinario nella sua semplice ed ordinaria espressione spaziale e temporale, lo fa con una naturalezza che incute rispetto e fascinazione, è la sua cifra stilistica, una caratteristica in continua evoluzione che trasforma le sue immagini in narrazioni impareggiabili.
In questo suo scatto la prospettiva ha reso le finestre antiche con le inferriate simili a degli occhi che stanno per chiudersi per la stanchezza ma ancora mantengono viva la loro curiosità di scorgere chi sta camminando oltre quel fossato.
Finestre come occhi appesantiti dal tempo ma non dal desiderio di appartenere sia alla costruzione dove sono incastonate che allo sguardo delle persone che vi passano accanto riconoscendo in un buio invitante il mistero della notte che li sta vestendo ed abbracciando con infinita dolcezza.
In questo scatto accade che il giorno pur avendo rinunciato alla luce del sole abbia chiesto alla la sera di farsi rinchiudere negli occhi della notte per scoprirne la magia indissolubile. Il muretto invita i passanti e chi osserva dall'esterno la scena a seguire una direzione ben precisa ed ha raggiungere le luci accanto alle case che per tutta la notte riusciranno a trasformare quel luogo in un incantamento rotto solo dal suono dei passi di chi vuole rinunciare al sonno pur di rimanere vivo e percepire il pulsare del buio più assoluto. Una città ed il suo desiderio di rimanere sveglia come il cuore di chi la abita, le luci questo raccontano ed Ivano Mercanzin le ha fatte sue in questo delicato scenario dove tutti noi vorremmo passeggiare prima di coricarci. L'autore riesce a farci percepire le voci morbide di chi si sta attardando, il profumo dell'aria quando ancora non fa freddo e la notte indossa tutti gli umori di chi la respira e la impregna di sè. Il buio non appare come incombente ma come un fluire pacato di un tempo a portata di mano di chiunque voglia farlo suo con quella calma che le figure umane lasciano trasparire dal loro incedere. Qualcuno li potrebbe definire sarcasticamente dei nottambuli perditempo, invece insieme alle luci ed al tempo loro si rivestono di quell'incantamento assoluto che ci incute timore e curiosità.

La notte è una seconda pelle, gli esseri viventi si godono una scena delicatissima e sognante dove regna armonia, comprese le finestre delle case, palpebre abbassate per riposare dopo una giornata di luce e di lavoro. Le chiacchiere serali, prima che tutto taccia si fondono con una prospettiva che l'autore dello scatto ha abilmente scelto ed evidenziato per comunicarci una serenità composta apparentemente di poco ma al contrario ricolma di un tutto che giunge fino alla nostra anima.
Come non evocare certe voci che sorridono mentre si fanno udire allontanandosi piano piano dalle case insieme ai passi che le sostengono? Indimenticabile atmosfera e gioco di luci ed ombre, il buio si veste di un cuore rassicurante che Ivano Mercanzin ha continuato a far battere nel suo scatto attraverso una miriadi di dettagli preziosi.

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Sirmione 2016

date » 01-11-2016 09:53

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Sirmione
2016I©vano Mercanzin
Riuscire a rendere un luogo straordinario nella sua semplice ed ordinaria espressione spaziale e temporale non è cosa da poco, tu ci riesci sempre, è una tua dote costante a livello fotografico. Qui la prospettiva ha reso le finestre antiche con le inferriate come degli occhi che stanno per chiudersi ma sono ancora curiosi di vedere chi sta camminando oltre quel fossato, occhi appesantiti dal tempo ma non dal desiderio di appartenere sia alla costruzione dove dimorano che alla gente che ci passa accanto e scorge un buio invitante e foriero di armonia, come accade solo quando il giorno rinuncia alla luce del sole e la sera ci prepara alle ombre della notte. Il muretto ci invita a seguire una direzione ben precisa ed ha raggiungere le luci accanto alle case che per tutta la notte riusciranno a trasformare quel luogo in un incantamento rotto solo dal suono dei passi di chi non vuole rinunciare alla vita solo perchè il sole è tramontato. Una città ed il suo bisogno di essere pulsante come il cuore di chi la abita, le luci questo raccontano e tu le hai fatte tue in questo delicato scenario dove tutti noi vorremmo passeggiare prima di coricarci. Riesci a farci percepire le voci morbide di chi si sta attardando ed il profumo dell'aria quando ancora non fa freddo ed indossa tutti gli umori di chi la respira e la impregna di sè. La notte non appare come incombente ma come un fluire pacato di un tempo a portata di mano di chiunque voglia farlo proprio con quella calma che le figure umane lasciano trasparire dal loro incedere. Qualcuno li potrebbe definire acidamente perditempo notturni, invece insieme alle luci il tempo loro lo vestono, è come una seconda pelle, si godono una scena delicatissima, dove tutto è armonia, comprese le finestre delle case come palpebre abbassate per riposare dopo una giornata di luce e di lavoro. Le chiacchiere serali, prima che tutto taccia, qui è una prospettiva che tu hai abilmente scelto e fatto tua per comunicarci una serenità composta apparentemente di poco ma al contrario ricolma di un tutto che giunge fino a noi come certe voci che sorridono mentre si fanno udire allontanandosi piano piano dalle case insieme ai passi che le accompagnano.
(Paola Palmaroli)

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RACCONTO: Troviamoci davanti al mare

date » 16-10-2016 21:45

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Eppure non doveva essere così difficile incontrarti. “Troviamoci davanti a un mare, uno qualunque”, mi avevi detto, salutandomi con un bacio. “L’immensità della sua vista ci troverà uniti, e che meraviglia sarà, allora, stringerci le mani assaporando le onde in arrivo!” Belle, le tue parole. Ci avevo creduto, portavano con loro il tuo sapore ingenuo per la vita, la tua meraviglia davanti a ogni nuovo sentimento. “Non riesco a non pensare a te”, continuavi a scrivermi. In qualunque momento del giorno e della notte, mi appariva sul cellulare sempre un nuovo messaggio con la stessa identica frase. Una volta ti ho chiesto se la copiassi e incollassi per risparmiare tempo. I tuoi occhi, in quel momento, traboccavano così tanto dolore che mi sono sentito piccolo e colpevole. Il piacere che provavi a scrivermi quelle parole, giorno per giorno, mi hai risposto, era una delle sensazioni nuove per le quali ti meravigliavi a ogni ora, e ringraziavi il mondo. E continuavi a riscriverle come in un mantra, per non perdere il dono di quella gioia. “Non riesco a non pensare a te”. E perché dovresti farlo?, ti chiedevo. Pensami, sognami, amami, tienimi con te.

Eppure non doveva essere così difficile incontrarti. Avevi detto che bastava avere un mare davanti, e noi ci saremmo trovati. Non ho smesso di crederci mai, nemmeno quando ti ho fatto promettere che non saresti sparita, perchè iniziavo a percepire la tua trasparenza nelle mie giornate. Come un ologramma, che si scolora al sole. E lo ritrovi vuoto, disabitato, seccato dal calore e dall’aria. Nemmeno allora. Ho camminato e mangiato, vissuto e aspettato. Ho ascoltato la musica di questo mare e di mille altri, pervaso dalla tua dolorosa assenza, sicuro che prima o poi avrei trovato quello che ti avrebbe riportato a me.

Fisso quest’acqua chiara e i gabbiani che portano in giro il loro pallore, oggi, e alla fine di questa nuova giornata mi ritrovo ancora a pensare che non doveva essere così difficile incontrarti. Le istruzioni erano semplici e io ci avevo creduto: mi bastava trovare una distesa azzurra, e lì davanti avrei riavuto te. I tuoi occhi, quando mi hai salutato, me lo hanno giurato. E loro, almeno loro, erano incapaci di mentire. Io non smetto di crederci. Devo solo trovare un nuovo mare, uno solo, sarà l’ultimo, lo so: cambiare nuovamente città, gente, regioni, paesaggi. E stare a guardare. Prima o poi ci incontreremo, davanti a un mare, uno qualunque. Io e te.
(racconto di Tania Piazza)

foto di Ivano Mercanzin - Venezia 2016

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