UNA GIORNATA QUALSIASI
DI UN MOMENTO QUALSIASI
L’OCCASIONE DI UN PAESAGGIO
L’AUTUNNO
UNA GRANDE FATTORIA D’ALTRI TEMPI
UN’AIA DESERTA
NOVECENTO ( DI BERTOLUCCI) NELLA MEMORIA
(IM)
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Novecento.
Là, dove e quando il cemento e l’asfalto avevano ancora solo una pelle e un’anima dal cuore di terra.
Alle soglie e anche oltre di quel territorio che la tradizione popolare chiama: “la bassa veronese”.
Un fotoreportage di “testa” e soprattutto di “cuore” ritratto con passione e poesia da Ivano Mercanzin.
Aperta campagna. Campi su campi distesi su una geografia agraria piatta e liscia coricata tra cielo e terra fino quasi a sfiorare l’infinito. Solenni filari di pioppi allineati come tanti obelischi o vecchi soldati appaiono come sentinelle mute del tempo e di questo sopravvissuto Veneto agreste. I pioppi presidiano le distese dei campi e il paesaggio dell’immensa e sperdente piana. Alberi dalle cime fruscianti giganteggiano come monumenti nella distesa pianura, là dove solo il vento ed il tempo dialogano con il silenzio e la nostalgia. Alberi in primo piano ma anche altri alberi adagiati sul filo disteso dell’orizzonte che disperde ricordi di genti, esistenze, visioni e vecchie storie. Pioppi frondosi allineati coi campi in geometrie contadine a delimitare confini agricoli, proprietà terriere e bianche stradine ghiaiose e polverose di campagna. Fossi, fossetti, fossati, canalette d’acqua per l’irrigazione che, come in un sistema venoso, servivano e forse servono ancora per “dar da bere” alla campagna. Sentieri erbosi, viottoli di terra tra altre terre di campo portano lo sguardo e lo spirito dentro alla grande e deserta campagna conducendo l’emozione fino all’interno del cuore di una ormai quasi dimenticata civiltà contadina.. Di tanto in tanto qualche rudere murario testimonia ancora l’antica presenza di comunità agricole, vive testimonianze e simboli di una storia ormai scomparsa inghiottita dal progresso e dalla modernità. Echeggia in queste immagini tutto o in buona parte almeno, lo spirito del “novecento”, quella parte perlomeno di novecento che riguarda il fenomeno storico, sociale, culturale dell’allora ancora molto importante ruolo della civiltà contadina.
Affiora ancora il sapore neorealista letto in tanti libri e visto in altrettanti film. Difficile non pensare a grandi registi come Visconti, Antonioni, Olmi e altri, ma soprattutto Bertolucci, qui ampiamente evocato, che con il suo suggestivo film “Novecento” ha fatto rivivere in tutta la loro splendida ma dignitosa miseria e povertà, queste atmosfere umane e sociali che appartengono ormai a pieno diritto alla grande storia di questo territorio e paese. Ivano Mercanzin ci porta a rivisitare questo spirito fotografando con lucida e commossa sensibilità questo borgo contadino che testimonia ancora la realtà di quei tempi. Nel borgo, ora vuoto e deserto, troneggia ed emerge l’importante corpo architettonico della splendida villa in stile palladiano, la cosiddetta “casa padronale” che, come una nobildonna o una ormai stanca regina, costituisce tuttora il fulcro di tutta la grande e articolata cascina. Tutto intorno alla villa si articolano come propaggini anatomiche, prendendo le forme del corpo di un villaggio, le costruzioni che servivano ad ospitare tutto il meccanismo della produzione agraria. Vi abitavano infatti i fattori, i braccianti, tutti i lavoranti con le rispettive famiglie. Vi erano ospitate le stalle per il bestiame, la grande aia, le barchesse per i foraggi, i porticati per la rimessa degli attrezzi agricoli, la torretta che forse funzionava da piccionaia o come punto d’osservazione verso i lavoranti nei campi e tutto ciò che serviva al perfetto e complesso funzionamento dell’enorme azienda agricola. Adesso l’obiettivo sensibile ed emozionato di Ivano ha colto quel che rimane di tutto ciò che era stato un tempo questo ormai deserto e silenzioso borgo che come un fantasma emerge dalla campagna. Unica presenza umana, oltre al fotografo, è un solitario quanto fugace ciclista, forse un custode, forse solo un passante curioso e interessato alle vestigia di questo villaggio. Forse l’unico abitante sopravvissuto all’esodo con un ultimo incarico di guardiano prima di un definitivo oblio generale dello spettrale crocchio di case.
Tutto intorno silenzio, campi su campi, vecchi muri scrostati, malinconici fossi, alberi, erba e terra, cielo e terra ancora fertile ma forse adesso inutilizzata. Aleggia solitudine, abbandono e dismissione. Dalle immagini si coglie emozione, commozione e vibrante nostalgia. Emerge la tristezza e la consapevolezza della dismissione che come una disperata delusione caratterizza e dipinge il luogo con i colori e tutti i segni del tempo e della storia, storia che forse qui, assieme ai contadini e agli uomini, non tornerà più.
Una bella testimonianza fotografica e non solo di Ivano Mercanzin che, grazie ai suoi emozionati ed emozionanti bianchi e neri, ha voluto ritrarre un pezzo della nostra storia perché, come purtroppo spesso succede in questi tempi, la memoria non cada.
Bene Ivano, molto bene. Un bel lavoro.
Franco Gobbetti
3 agosto 2016