NYC 2015
CONEY ISLAND
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Caro Ivano, ebbene sì solitamente non scrivo commenti su altri "colleghi", amo scrivere solo sulle mie immagini e su di me, difficilmente amo i lavori degli altri e che semmai dovessero piacermi lo esprimo pubblicamente. Ma non è per presunzione, è solo per inguaribile pigrizia: mi costa già tanta fatica esprimere quello che voglio (spesso senza nemmeno capirlo) che figuriamoci se posso anche fare lo sforzo di cercare di capire quello che intendono gli altri. Tuttavia il tuo lavoro “Coney Island” mi ha colpito e per una volta, giusto perchè Natale, farò un’eccezione; per uno slancio di generosità e perché sono anni che vorrei fare un reportage nello stesso posto, quindi solo per sincera invidia. Mi colpisce il tuo modo di aver fotografato un luogo che io avrei fotografato in modo del tutto diverso, quindi la “lettura” diversa figlia evidentemente di un diverso percorso interiore e culturale. Nella tua fotografia non c’è mai quel cadere in tentazione di strizzare l’occhio all’osservatore che fa a volte di tanti di noi nell’era dei social più degli esperti di marketing di comunicazione che fotografi. Anche “Coney Island”, come “Venezia” non propone cartoline che ti fanno desiderare di andare in quei luoghi, ma immagini che suscitano più il desiderio di rintanarsi in qualsiasi bar a sorseggiare un bel the caldo. Ed è quella la loro forza. Sono scatti di un puro, ostinato nelle sue sfumature antiche di non colori, dove terra aria ed acqua si mescolano nel grigio di una nebbia stesa come un velo discreto sulle proprie ed altrui emozioni. Nessun ammiccamento né agli altri né a te stesso, perché non ti piace manipolare la realtà; ci restituisci quindi quello che è in questa stagione: un posto freddo, insalubre, solitario e maledettamente malinconico, che solo un ostinato veneto innamorato della fotografia può aver voglia di visitare e scattare in una stagione e giornata così. Un uomo che passeggia, giostre abbandonate, prospettive solitarie, ossia tutto il contrario dell’insieme di colori, sneakers, luci e turisti che possono affollare quel luogo nelle stagioni degli amori e che ne fanno l’iconografia più conosciuta. Tutto questo perché ogni luogo vive il suo tempo, ma allo stesso modo conserva quello che è stato in una immutabile immagine di se stesso e della sua anima. E te caro Ivano è questa essenza che cerchi, sia che scatti a New York che in qualsiasi altro luogo. Un modo per non disperarsi di ciò che dei tempi odierni non ti piace, un modo per poter dire agli altri, ma con estrema discrezione, quello che sei.
Larry Woodmann - fotografo - ( Natale 2015)
Quando le parole calzano come un guanto.
Larry ha 'visto', ha scritto di te, Ivano, del tuo sfuggire il consueto e l'ovvio. Ha scritto della tua essenza, del tuo riserbo per l'eccesso, della tua 'quiete' apparente.
Ha scritto di un Uomo, prima ancora che del fotografo.
Tutto il resto ne è solo la conseguenza.
La tua passione ha solo un colore diverso ma resta tangibile e palpabile in ogni frame. La ricerca dell'equilibrio, l'amore per una solitudine che non è mai allontanamento dal mondo ma anzi, immersione profonda in esso.
Non potrei esprimermi meglio.
A me il piacere di averti come amico da molto e la certezza di ritrovarci ogni tanto in questo percorso che non porta lontano ma unisce.
Patrizia Moretti - fotografo - (3 gennaio 2016)
La penisola di Coney Island è conosciuta nel mondo per le sue spiagge e i suoi Luna Park , a pochi passi dalla caotica e cosmopolita Manhattan. La serie Coney Island di Ivano Mercanzin vuole giocare con questi elementi, che sono presenti e ritratti in maniera insolita , distante dall’idea di svago, divertimento e piacere che può essere a loro associata.
Le fotografie,in bianco e nero, immortalano scorci deserti di Coney Island privi di presenze umane che rappresenterebbero segnali di vita, di interazione. L’aspetto interessante delle opere risiede in questo ribaltamento, nel capovolgimento del valore e del senso di un luogo per mezzo di una fotografia che coglie con estrema sensibilità una sfaccettatura insolita. L’ambientazione degli scatti è spettrale, e si è portati a fare un viggio immaginario in questi luoghi artificiali ma privi di vita, culla del divertimento estivo ma ritratti in un inverno freddo e ventoso in cui il grigio penetra dagli occhi e si insinua nell’animo.
(fonte Alidem)
Ho visto altre foto di Coney Island e nell'immaginario è rimasto un che di fiera colorata, una grande Rimini, l'effimero fatto stile di vita per qualche giorno.
Ma i tuoi bianchi e nero non riportano a Coney Island. Se non dicevi di essere proprio lì a fotografare, potevi essere in qualsiasi altra spiaggia di un paese europeo o chissà dove.
Decadenza, decadenza, decadenza. Siamo al day after, pochi sopravvissuti, anche il sole sembra essere già fuggito via. Chi volerà più su Thunderbolt, drago silenzioso ed infreddolito? e tu grande ruota, ragnatela d'acciaio, mai più avvolgerai ali innamorate! Il gabbiano lancia ostinato il suo richiamo, scruta le sabbie alla ricerca del luccichio della perla, piange sconfitto dalla bruma
invadente.
Dove sono gli uomini, dove sono gli amori? Addio Coney Island, ti lascio anche io.
Giuseppe Iovio - maestro pittore - (Vicenza, 4 gennaio 2016)
Questo progetto di Ivano Mercanzin nasce sicuramente dal suo sguardo, dalla sua poetica fotografica attenta allo spazio come luogo costruito, civile e antropico. Nasce quindi da uno spazio abitato e umano, dove la civiltà ha lasciato tracce, costruzioni, ponti, edifici e tutto ciò che rende una geografia fortemente umana. Ivano, da fotografo di fibra, sa però bene che spesso più dei pieni parlano i vuoti, più dei tempi e degli spazi affollati quelli poco frequentati, anche solitari; proprio per questo più ricchi di atmosfere, di traiettorie, sfumature, suggestioni. Più di mille oggetti, figure, edifici, l’aria che li attraversa racconta o solo tratteggia presenze-assenze, fa emergere dal profondo suggestioni ed evocazioni, meglio e con maggiore efficacia di tanti pieni, di precise e affollate percezioni sensoriali. Allora la foto diventa poesia, atmosfera, connotazione, detto e non detto, visto e sentito o solo immaginato, insieme. Nel profondo di un silenzio, di uno spazio solo in apparenza disabitato, ma in verità popolato di storie, frammenti di vita ed emozioni, nascono proprio queste presenze-assenze, questi vibranti vuoti abitati…
Luciano Benini Sforza - poeta e scrittore - (26 dicembre 2015)
coney island, chissà dove.
da lontano arrivano le onde
millenni e millenni
rotolano e si insabbiano
finalmente
la città si specchia
tremolante
saette all'orizzonte
traforano veli gravidi
nuove acque.
Giuseppe Iovio
Vicenza 15 ottobre 2016
LA SPIAGGIA DI CONEY ISLAND
Sul ponte fragile che lega insieme
un'esile speme e legno instabile –
chiavati compagni contro la spuma –
aleggia la bruma d'ignoti stagni:
le vaghe impressioni, le scure effigi.
I respiri grigi in viete visioni
trasmutano l'orme che nebbia cela.
Mentre il mare gela la rena dorme;
e i ferri levati al cielo coperto
nel quieto deserto vigilan grati
i sogni e i sorrisi d'un'altra luna
che quivi raduna – remoti e lisi;
ma al suono celeste dell'alta notte
le gioie incorrotte tornano deste.
(Alberto Sinistro Crudeli)
Infinità
di Tania Piazza
Stare appiccicati a qualcuno, si può. Io l'ho fatto per anni, fino alla settimana scorsa: esattamente sei anni e ventidue giorni. Senza farmi vedere, senza che lei lo sapesse, almeno non più. All'inizio, gliel'avevo detto ben chiaro: "Non ti abbandonerò mai, non ti lascerò andare nell'oblio. Sarò sempre con te, anche se non mi vuoi più." Che poi, non è stata lei a decidere che dovevamo dividerci; è stata la vita stessa a farlo. O meglio, la mia vita ha portato lei a dirmi addio. Ci siamo conosciuti che io ero già sposato, con due figli. Perchè non potevamo incontrarci prima? Dopotutto, era con una come lei che avrei voluto costruire una famiglia. Era con una come lei, che avrei voluto camminare giorno per giorno. Alla fine, quello che mi ha fregato è stato quel "come lei". L'ho compreso dopo, che esiste solo una Lei, e qualcuna, forse, come lei. Con la quale si può stare bene, ci si può sposare e ci si può anche fare dei figli; ma quando poi la vita ti mette di fronte a Lei, allora capisci tutto. E vorresti poter tornare indietro, per compiere di nuovo le tue scelte, ma sai che non è possibile.
Quando ci siamo incontrati, ho provato a far finta di niente. Ho proseguito senza cambiare nulla. C'era solo Lei, in più, ma non credevo che questo sarebbe bastato per smontare il mio equilibrio. All'inizio, ho chiuso gli occhi, semplicemente: Lei mi cercava, ma io fingevo di non vederla. Credo sia stata la vita stessa a ingiungermi di aprirli, quegli occhi, quella stessa vita che oggi mi spinge a chiuderli di nuovo. Resisti, per un po', ma poi non ne hai più, nulla può contrastare ciò che porta in sè un vago sapore di infinito. E allora lo accogli in te, e ti accorgi che quello che prima chiamavi vita, altro non era che una brutta copia, una prova scritta in fretta, d'istinto, da riportare prima o poi in bella. Pensi ai tuoi figli, pensi a tua moglie. Alla casa. Alle vacanze. Alla cena da preparare. Agli acquisti da fare. All'erba del giardino da tagliare. In mezzo a tutto quello che è vita, vorresti metterci Lei. Come se nulla fosse, tra una lista della spesa e i bambini da portare a scuola.
Ma Lei non ci sta, e allora glielo spieghi che non puoi cancellare anni di vita vissuta in nome di una promessa di anni di vita da vivere. Glielo dici che non puoi immaginare di ritornare a casa la sera, dopo il lavoro, e non sentire più i rumori dei tuoi figli che giocano tra di loro e rinunciare a vedere la scintilla che, in mezzo alla stanchezza di tutto il giorno, anima comunque di gioia gli occhi di tua moglie. Lei, dove potrebbe stare in tutto ciò?
Non ci sta, punto. Ecco perchè decidi che le rimarrai appiccicato per sempre, a distanza, addosso come fosse vero, ospite nel tuo stesso cuore. L'ho portata da allora, dentro di me, e me la sono tenuta stretta ogni giorno. Per sei anni e ventidue giorni, in ogni momento della mia vita. E' come se l'avessimo vissuta in due. Lei forse nel frattempo se l'è dimenticato, ma il mio cuore ha sempre battuto doppio, a ogni battito: uno per me, e uno per Lei. Gliel'avevo giurato, che non l'avrei lasciata andare mai, ed è questo che ho fatto. Anche quando ho saputo che si era fidanzata. Anche quando mi hanno detto che cercava casa, per starci con lui. Non ho mai visto una fine, in questo, solo un naturale proseguio delle nostre vite. Svegliarmi alla mattina sentendola dentro di me; sognarla, a volte, la notte, per vivere degli sprazzi di irrinunciabile felicità. Non ho mai visto una fine, mai.
La scorsa settimana, però, ero in coda per un hamburger, come al solito: la mia pausa pranzo veloce, qui sul lungomare. I gabbiani hanno la voce acuta, e a volte ho l'impressione che possano scheggiare il cielo; mi piace starmene qui ad ascoltarli, mentre mangio, prima di tornare in ufficio. E' come se ogni giorno la perfezione cristallina del paesaggio venisse messa in pericolo dalle loro urla, e amo vedere come questo non succeda mai. Mi metto in un angolo, a osservare le persone che passano, veloci nelle loro vite diverse. D'estate, poi, l'allegro brulichio di gente fa sembrare impossibile essere triste, anche per un solo, isolato attimo. Amo questo luogo, in ogni stagione. Mi riporta alla gioia dell'infinito. Mi riporta a Lei.
Ma la scorsa settimana, appunto, mentre ero in coda per il mio hamburger, ho sentito casualmente due donne che, chiacchierando, parlavano di Lei. Credo fossero colleghe, perchè la conversazione verteva sui turni da coprire e sul lavoro che sarebbe rimasto arretrato. Ci ho messo un po' a unire le parole che stavo ascoltando con l'adorata coinquilina del mio cuore. Poi, ho capito: Lei è incinta. Aspetta un bambino. Avrà presto un figlio. Condividerà la felicità così definitiva di diventare mamma con un lui che non sono io. I suoi occhi parleranno a un altro uomo, raccontandogli cose che ho sempre immaginato avrebbero un giorno raccontato a me. E' strano come certe cose si capiscano in un lampo, all'improvviso: il mio cuore l'ho sentito uscire dal petto, e credo ce l'abbia messa tutta per parlarmi, per rubare un po' della mia attenzione, per farmi finalmente ragionare. L'ho visto prendermi in disparte e mettermi un braccio attorno al collo, abbassare il tono di voce e sussurrarmi nell'orecchio ciò che il mio cervello non aveva mai voluto ammettere: da sei anni e ventidue giorni ero solamente in attesa. Avevo parcheggiato Lei nel mio cuore con la speranza di fermare il tempo, vivere tutto quello che mi restava di questa vita con mia moglie e i miei figli fino alla vecchiaia, fino alla morte, e poi ritornare indietro, riprendere Lei da dove eravamo rimasti e ricominciare a vivere di nuovo, la vera vita che stavamo aspettando. Attendevo di vederla io, quella luce di felice incredulità, quando mi avrebbe annunciato di essere incinta. Attendevo di vedere nascere quel figlio del nostro amore. Di vederlo crescere, di tornare a casa la sera dopo il lavoro e ascoltare la sua voce allegra, e cogliere la scintilla di gioia che, nonostante la stanchezza della giornata, avrebbe abbellito gli occhi di Lei, al mio rientro. Attendevo di programmare le vacanze, gli acquisti, il dentista e la partita di calcio della domenica. Attendevo di vivere l'infinito.
Quel giorno, sono uscito dalla coda senza hamburger, e ho iniziato a camminare sul lungomare. Lo faccio tutti i giorni, da allora. Tengo la testa bassa, per non perdermi nessuno dei granelli di sabbia che riempiono la spiaggia. Osservarli, mi riappacifica col mondo. Provo a contarli, ma spesso mi perdo e torno indietro e questo mi dà serenità: ce ne sono miliardi, e ovunque volga lo sguardo la loro presenza mi calma, mi ridà fiducia in qualcosa che non conosce fine. Immagino di camminare per chilometri e chilometri e di ritrovare sempre la stessa sabbia sotto ai miei piedi, ascoltando il suono del mare, che continua a portarmene di nuova. Ciò che fino alla scorsa settimana dimorava dentro di me, rintanato in un angolo del mio cuore, si è spezzato, d'un tratto: sei anni e ventidue giorni interrotti senza un preavviso. Credevo bastasse stare appiccicati a qualcuno dentro al cuore, per mantenere infinita la promessa di vita. Credevo che, anche se Lei non ne era consapevole, avrebbe aspettato per sempre, con me, quello che sarebbe venuto. Camminavo dentro a questa vita con questa promessa di infinità. Ora, il mio cuore ha bisogno di un nuovo infinito; conto i granelli di sabbia, e mi pare di poterlo riempire così.
Qualcuno, ogni tanto, accenna un saluto incrociandomi. Vede un uomo solo - solo come non sono mai stato - con la testa bassa e lo sguardo rivolto al suolo. Mi sente mormorare con un filo di voce, perchè cammino contando i granelli, e ogni giorno proseguo dal numero a cui ero arrivato il giorno prima. Penserà che io sia malato, come sono malate quelle persone che non hanno nessuno a cui raccontare di sé. Ma io mi sto curando, già, e il giorno in cui non verrò più qui sul lungomare a contare, sarà forse il giorno in cui inizierò davvero a vivere la vita che sto vivendo ora. Mi sveglierò la mattina senza sentire il vuoto in un angolo del mio cuore, e farò colazione mangiando solo per uno. Andrò al lavoro senza accumulare nella testa le cose da raccontare poi a casa e rientrerò la sera, senza cercare più la scintilla negli occhi di mia moglie, perchè non avrò più nessuno a cui paragonarla. Andrò a dormire sperando di non sognare, perchè sarò sicuro che nei sogni non sarò mai più felice.
Ma finchè i granelli di sabbia non si esauriranno, io tornerò qui, in cerca dell'infinito. Quello che mi ha portato avanti in questi anni, quello che tenevo appiccicato al cuore. Perchè l'infinito, se anche la vita, a volte, fa di tutto per farlo vacillare, non dovrebbe finire mai.