Just smile (chronicles by an alien): racconto di Tania Piazza
Salgo a Queensbridge, stasera. Non c'è coda, incredibilmente, e tutte queste solitudini risaltano di più, così. Come l'uomo che nemmeno si volta a guardarmi, quando il mio album lo sfiora sulla gamba, dove forse il velluto dei pantaloni diventa quasi una corazza invisibile per difendersi. Non sarà facile disegnarla, quella, ma la sua faccia mi piace, nonostante il profilo un po' rigido. Forse è proprio evitando gli sguardi che le anime si incontrano meglio. La sua mano si muove agile, staccata dalla fissità di tutto il corpo. Va a proteggersi il viso, quasi avesse percepito il mio bisogno di uno scambio, mentre dall'angolo nel quale mi trovo finisco di tratteggiarlo. Rimarrà così definito, con segni sottili e un po' tremolanti, simboli dell'indecisione: quella che mina i rapporti di questo bizzarro paese, nel quale, non so perchè, la gente non sa se lasciarsi andare oppure no. Arriva il treno, lui si alza e continua a non guardarmi, io richiudo l'album, intasco la grafite e mi accodo, per salire. Si ferma appena entrato, al primo posto libero del primo scompartimento: sembra esserci un certo punto, in queste strane vite, in cui ogni passo in più del necessario non pare avere significato. Io proseguo, ringraziandolo e salutandolo silenziosamente per essere entrato a far parte del mio racconto; non voglio soffermarmi oltre, su di lui, ho imparato che è il primo impatto quello a rimanere dentro come un solco, non vale a nulla volerlo cambiare.
Mi ci vogliono pochi minuti per buttar giù il ritratto successivo: appena si spalancano le porte, una luce grande d'argento si rimbalza graziosa, da un finestrino all'altro. Nessun ostacolo visivo, a parte lui. Testa china sul petto e mani giunte. Un quotidiano, letto e abbandonato a terra con le sue notizie già consumate, come a segnare il passaggio al giorno successivo, che sta per arrivare. Ecco cosa fa quell'uomo, il suo è un saluto: ha capito l'ineluttabilità del tempo, il suo incedere senza soste. Si prende un attimo per salutarlo e rendergli omaggio, anche se non sembra essere stato il giorno più felice della sua vita: la punta della mia matita pare trovare degli ostacoli, non riesco bene a girargli attorno. C'è un'energia negativa che mi spinge lontano dalla sua sagoma rassegnata, ma non posso non imprimere ciò che i miei occhi vedono. E' la promessa che mi sono fatta all'inizio di questa avventura, l'unica condizione che mi sono posta: la verità, a ogni costo, anche se mi ci vorrà del sacrificio, ma il mio reportage deve essere il più possibile realistico. Disegnerò la felicità e la tristezza, e alla fine di tutto chissà che il conto si chiuda a favore della prima. Sto leggera e finisco in fretta; credo sia un modo per ammorbidire la caduta in questi stati d'animo. Rimaner leggera con la matita, per starci meno male.
Getto lo sguardo fuori, finchè mi prendo una pausa per rifiatare. C'è una tipa sola e imponente, proprio sotto al cartello della 21 Street. Queensbridge, c'è scritto, e lei fa la regina, sotto. Mi vengono in mente gli occhi del vecchio di prima, che correvano via, e li cerco voltando indietro le pagine dell'album. Fisso ancora quella mano alzata a nascondere la sua essenza e rialzo subito la testa per rivedere l'alterità di questa donna regina, che mi sfida con le labbra socchiuse, auricolari addosso e una mano in tasca. Magari anche lei vorrebbe che non la guardassi così, che non ritraessi l'astio che butta fuori sul cemento e le piastrelle, le rotaie, i finestrini, i visi di chi, come me, è affacciato a osservare. Chissà, la sua giornata è finalmente finita oppure sta per iniziare, e la bottiglia di latte che tiene nella mano destra è la sua colazione notturna, prima di andare al lavoro in un locale dove si affumica i polmoni e lo spirito e deve mascherare la durezza del suo cuore. Chissà. Mi stanco in fretta di queste figure. La mia matita scorre come un fulmine, rapida, a chiudere il capitolo. Ogni volta, ho sempre la speranza che la prossima pagina sia quella giusta. Dall'inizio di questo viaggio, sono già alla ventidue. Tutte lampi, figure appena abbozzate, volti che sfilano in sequenza, ogni volta che scorro velocemente il libro. Amo farlo, amo vedere il mio potere di far andare avanti le cose che non mi piacciono. Mi fermerò solo quando troverò il tratto giusto, quello felice e deciso, che mi bagnerà il viso, che mi farà venire voglia di restare. E' questa la mia missione.
Velocemente, gli spazi vuoti nello scompartimento prendono a riempirsi, con frenesia, come se ognuno dei passeggeri che sta salendo aspirasse a diventare protagonista del mio racconto. "Si tengono audizioni, avanti!", sussurro tra me e me. "Chi vuole far parte del mio album si metta in coda!" Ho la sensazione, però, che nemmeno se urlassi mi darebbero bada. Colgo infatti ogni giorno di più il significato di una cosa nuova, che non conoscevo, e che un po' mi destabilizza: il senso di essere un singolo. Tanti individui isolati che non si compenetrano l'un l'altro, e, incredibilmente, nonostante la vicinanza e la promiscuità che questi luoghi offrono, non sono portati a scambiare le proprie storie con quelle delle persone che hanno accanto. Davanti a me, facce perse. Lei che fa viaggiare i suoi pensieri ascoltando musica negli auricolari, tenendo gli occhi chiusi per non vedere lui, forse, con il quale i giorni divengono sempre più difficili. Anche se glielo ripete da tempo, anche se i sospiri non hanno più peso, lui continua a bere e lei continua ad ammazzarsi di lavoro. La sua faccia spenta parla del tempo che segna e della schiena che le duole, come l'anima. Della vita che fa male, a dispetto dei sogni di gioventù. Al suo fianco, a pochi centimetri dal suo dolore, lui guarda in basso, ascoltando musica da altri auricolari, viaggiando su strade diverse che convergono solo nella quotidianità. Ma là, nella fantasia, dove lo spirito è libero di scegliere, ognuno se ne va per conto suo, sognando di non tornare. La cosa più triste, nel disegno che sto abbozzando, non sono questi due volti e il solco che li tiene lontani. E' l'immagine che contrasta, dietro alle loro spalle, appiccicata alla parete, in una cornice: una giovane donna ritratta all'interno di una cucina, che guarda dritto nell'obbiettivo. La franchezza del suo sorriso mi dice che non c'è margine di errore: è tutto vero, la sua felicità non me la sto immaginando, e nemmeno l'infinita tristezza della coppia. Non posso esimermi dal disegnarli, mi sentirei in colpa. Anche se vorrei, anche se il peso di quel sorriso sincero fa risaltare così tanto la grevità delle infelicità che gli stanno sotto. Vola, la mia matita leggera.
Da ogni parte, ciò che mi circonda parla la lingua dell'alienazione: ogni persona che incrocio mi propone un suo proprio linguaggio, che io traduco in questi miei schizzi. Sono stata arruolata per portare a casa un sunto delle emozioni che popolano questo pianeta, ma finora i miei disegni hanno tutti un tratteggio troppo leggero perchè io sia felice. Credevo che nell'universo fossimo davvero tutti uguali, ma al di là delle sembianze che non si discostano nelle forme ma solo nelle tonalità della pelle, ciò che pare davvero essere diverso è lo spirito che vive dentro. Questi esseri, i miei soggetti, hanno tutti un comune denominatore, uno stesso colore che li abita, una sorta di rassegnata accettazione. Io, questa cosa, non la conoscevo proprio. Ci sono momenti, è vero, in cui fatico a trovare la luce del sorriso; ma durano meno di un attimo. A questo punto del mio viaggio, dopo giorni di disegni, l'idea che mi sono fatta è che una enorme eclisse di Sole sia in atto, a colpire la Terra. Me la spiego solo così questa mancanza di luce, il baratro in cui tutte le persone che sto incontrando sembrano essere cadute. Una forza esterna, qualcosa da cui non c'è scampo. Povere anime. Come queste due ragazze davanti a me, strette in un abbraccio con il loro telefonino, le orecchie chiuse dai soliti auricolari. E' come se dentro a quegli aggeggi ci fosse una fonte di energia alla quale quasi tutti, qui, fanno ricorso. Come facciamo noi, con la natura e gli alberi del nostro pianeta, e con gli animali, stando insieme a loro, senza auricolari alle orecchie, per ascoltare la musica del loro cuore felice, e del nostro. Così ci ricarichiamo, in poco tempo, e torniamo a sorridere. Qui, invece, mi sembra davvero diverso. Ma non mi dò per vinta, non è da me: sto ancora tentando di trovare quel sorriso, quel tratto di matita così ben marcato da poter scrivere la parola fine alla mia ricerca.
Prima di partire, mi avevano rassicurato: davanti alle mie perplessità su questo soggiorno in terra straniera, mi avevano detto che mi sarei sentita come a casa, che sarei stata lontana milioni di anni luce, ma che in fondo non me ne sarei quasi accorta. Appena atterrata, le similitudini con il nostro paesaggio mi avevano rincuorato, tranquillizzandomi sul fatto che avrei trascorso dei giorni sereni. Quando la sera faccio rapporto a casa, però, ciò di cui mi lamento non è la natura: è l'aria che respiro qui, che mi opprime. Ma eccole di nuovo, le sensazioni negative. Stavolta è peggio delle altre, però, e mi sento anche un po' intimorita: la coppia che è appena salita sta spandendo un'aura di colore scuro tutt'intorno. Sono la sola ad accorgermene? Guardo i volti di chi mi sta vicino, ma ognuno si fa i fatti suoi. Ritorno a osservare i due: forse lei gli ha chiesto il perchè del suo solito malumore. Come mai, ogni volta che le rivolge la parola è come se qualcosa le stesse tagliando la pelle a piccole strisce, lentamente, causandole un dolore continuo. Come mai, il semplice fatto di essere donna sembra porla su un piano inferiore, togliendole il diritto a vivere come lui, a uscire come lui, a vedere altre persone, come lui, a vestirsi come le pare, proprio come fa lui. Non ne capisce il motivo, lei. E francamente nemmeno io. Ma il solo guardare l'espressione adirata con cui lui la sta redarguendo mi mette i brividi. La mia mano inizia a tratteggiare veloce, veloce il più possibile: voglio uscire da questa vignetta e chiudere gli occhi davanti a queste cose, pur sapendo che il mio dovere è quello di rimanere, tenere gli occhi ben aperti e segnarmi tutto. Anche il timore che lo sguardo stanco di lei sta tentando di nascondere al mondo. Anche la sua folle paura di essere punita ancora, una volta a casa. Anche la parabola che gli occhi dell'uomo disegnano cercando di sottomettere quelli di lei, e che snatura l'espressione di un volto che altrimenti avrei definito armonioso. Il male si può celare anche dietro l'armonia, qui, dovrò ricordarmene. Torno a lei, alla sua faccia che la luce metallica dello scompartimento sembra accarezzare, quasi a portarle sollievo e a lenire ciò che ancora si può lenire.
Il disegno lo finisco in fretta, quasi correndo, come al solito ormai; mi volto con il fiato in gola a cercar sollievo in chi è fuori e senza pensarci, sgomitando tra la gente, mi butto fuori anch'io, l'album ben stretto nella mano, lontano da quella cattiveria, lontano dalla paura e da tutto ciò che mi sembra irragionevole. Riesco a calmarmi mescolandomi a un gruppetto in attesa, forse del prossimo treno. Non sembrano conoscersi, ognuno probabilmente è arrivato da solo, ma colgo un sottile filo che tiene uniti tutti, e credo si tratti della forza delle radicate distanze che, paradossalmente, legano questi personaggi. Ancora telefonini posati su mani che si muovono veloci. Ancora sguardi a terra, occhi che non si cercano, umanità che si schivano. D'istinto, mi calo un po' di più il cappello sulle orecchie, come per non sentire oltre quell'atmosfera. La donna seduta sulla panchina ha dei bellissimi capelli. Lunghi e ricci, dovrebbe esserne fiera, e felice. Mi viene dal cuore fare un sorriso, rivolto proprio a quei ricci scuri, che forse sono la cosa più sincera che riesco a intravvedere in questo quadretto. L'uomo che le sta vicino è chino anche lui, porta il telefono un po' più vicino al viso, forse per la vista, che alla sua età non è buona come quella di lei, che invece lo tiene appoggiato alle gambe, e scrive. C'è dello spazio libero tra loro, ma nessuno dei due si è seduto vicino all'altro: la piccola panca di legno ha dei divisori, come delle minuscole dighe. Che bloccano, a quanto pare, il flusso delle loro umanità. Mi intestardisco col mio sorriso e provo a prolungarlo, sporgendomi un po' in fuori, verso i volti di queste due persone, abbracciando i capelli belli della donna e il suo sguardo che non mi guarda, e quello dell'uomo a lei vicino, che continua imperterrito a leggere in basso. L'unica che pare notarlo è la signora che sta alla mia destra, ma il mio entusiasmo muore all'istante: il sorriso mi si spegne, di fronte allo sprezzo dei suoi occhi. E' come se mi stesse silenziosamente richiamando, come se il mio comportamento non fosse consono al mondo che mi ospita. Mi stringo nel cappotto di lana e ad alta voce le leggo il cartello che sta tra me e lei, - Making peace at home - . "Non è casa, questa?", le sussurro. "Non potreste, semplicemente, sorridere?"
Fuggo via, anche da lì. Risalgo sullo scompartimento che era rimasto immobile, forse già conscio del fatto che non mi sarei fermata a lungo a terra. Sguardi fissi e fermi in una realtà parallela che non si palesa ai nostri occhi, come se ognuno avesse davvero un mondo a parte nel quale spendere le proprie emozioni, come se per questo passaggio non ce ne fosse il bisogno. Solo un transito. Magari, non so, ogni persona che incrocio sta studiando me, e non si capacita della mia irrequietezza, del mio non trovar pace: continuo, infatti, ostinatamente, ad aprire il mio album e a richiuderlo, stizzita, subito dopo; sono stanca di ritrarre questa Terra. Voglio un volto che mi faccia innamorare, che mi faccia tornare a casa con quella specie di leggera nostalgia che illumina le ore. Voglio poter dire che è bello, qui, come quando si va in vacanza; che l'aria ha il colore ricco delle anime che si incontrano per la strada, di chi va al lavoro e di chi è perso in una telefonata, di chi viaggia pensando a cosa cucinare per cena e di chi si lascia passare davanti agli occhi socchiusi le immagini di una vita vissuta accanto all'uomo che ama, finchè attende il treno. Di chi scrive al ragazzo che le fa battere il cuore e di chi pensa a come sarebbe stata la sua vita se solo. Di chi si trucca in tutta fretta, incurante degli sguardi o dei pensieri delle persone che le siedono accanto, perchè deve arrivare all'appuntamento più bella che mai. Di chi legge il giornale ogni giorno, sperando sempre di trovare quella notizia che sembra scritta apposta per lui. Di chi guarda gli altri negli occhi. Di chi si toglie gli auricolari per cogliere il battito delle cose. Di chi osa.
Sollevo lo sguardo alla parete. Un'altra cornice, un altro quadro appeso. Due bollini fanno da occhi. Una banana fa da sorriso. - Just smile -. Eccolo, il mio volto felice. Ecco quello che andavo cercando. Qualcosa che stia sopra a tutto il resto, sopra agli umori e alle sfortune, alle emozioni e agli accadimenti. Qualcosa che dia quella luce che credevo svanita in un'eclisse. Sotto al quadro, la testa argentata di un uomo seduto, appoggiata al finestrino. La sua fronte è disegnata da mille rughe, la mano sinistra tiene coperta la bocca, come se la mascella volesse scendere e lui non volesse farla andare giù. Ma sono i suoi occhi ad attirarmi, infine. C'è quello che ancora non avevo trovato, dopo tutti questi giorni. Una certa intenzione di burlarsi delle noie, di ridimensionare ciò che vedono, di provare davvero ad andare oltre. Un accenno a un sorriso, piccolo e nascosto, tutto contenuto all'interno di quelle iridi scure. E forse ecco, allora, cosa vuole nascondere la sua mano davanti alla bocca. Ecco un uomo che ha capito tutto, finalmente. Quello che mi farà tornare a casa felice, con il sorriso che cercavo, che mi farà dire che, dopotutto, qui è come da noi. Apro l'album convinta, nessun ripensamento: la mia matita inizia a tratteggiare le sue forme ed è bello, finalmente, lasciare andare la mano e il braccio e il corpo tutto, con forza, senza star leggera, senza andar veloce, gustandomi ogni segno. Mi piace, il mio disegno, stavolta. Just smile.