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Venezia: visioni e illusioni (notte)

PER ACQUISTARE IL LIBRO


"Il pizzo verticale delle facciate veneziane è il più bel disegno che il tempo-alias-acqua abbia lasciato sulla terraferma, in qualsiasi parte del globo.
In più esiste indubbiamente una corrispondenza - se non un nesso esplicito - tra la natura rettangolare delle forme di quel pizzo - ossia degli edifici veneziani - e l'anarchia dell'acqua, che disdegna la nozione di forma.
E' come se lo spazio, consapevole - qui più che in qualsiasi altro luogo - della propria inferiorità rispetto al tempo, gli rispondesse con l'unica proprietà che il tempo non possiede: con la bellezza.
Ed ecco perché l'acqua prende questa risposta, la torce, la ritorce, la percuote, la sbriciola, ma alla fine la porta pressoché intatta verso il largo, nell'Adriatico".
Iosif Brodskij- Fondamenta degli incurabili,

Ivano Mercanzin sceglie uno stralcio dell’opera di Iosif Brodskij per introdurre la propria visione di Venezia, portando l’attenzione di chi osserva più sull’atmosfera e sulla dimensione sensoriale che sulla descrizione e sulla documentazione.
Come il poeta russo, ormai considerato un grande maestro del XX secolo, l’autore di queste immagini volge lo sguardo verso l’intima atmosfera di una città nascosta , notturna e a tratti tenebrosa.
Da questa prospettiva, l’inverno è la stagione ideale che gli permette di conoscere gli aspetti autentici e sinceri di una città del tutto sconosciuta allo sciame di turisti e visitatori della bella stagione.
Il suo sguardo si muove tra le luci soffuse e le ombre che dominano la notte umida e penetrante della città lagunare. La nebbia, i colori smorzati e il suono dell’acqua sembrano emergere dalla fotografie di Ivano Mercanzin con una sensibilità delicata che riconduce al sentimento contemplativo della solitudine e della quiete
Il paesaggio lagunare è ritratto con ritmo fluente e armonia espressiva nel giusto equilibrio dei bianchi e dei neri che si susseguono in giochi prospettici.
Ottima interpretazione, romantica e dinamica al tempo stesso.
IL FOTOGRAFO MARZO 2016 (DI DENIS CURTI)

SOLITUDINE racconto di Tania Piazza
(ispirato alle foto di Venezia)

E' domenica, accidenti, non l'avevo calcolato quando ho deciso che avrei potuto prendermela con comodo, una volta tanto; la gente sembra riprodursi a ogni passo, e dannazione!, arriverò tardi, Oscar me ne dirà di tutti i colori. Non è una cattiva persona, anzi, solo che non tollera i ritardi e fino ad ora non gli ho mai dato modo di lamentarsi; oggi però è un giorno diverso, e quando mi sono steso a letto dopo aver mangiato gli avanzi di ieri sera, mi è venuta proprio voglia di fregarmene, senza l'assillo dell'orologio. Non ho messo la sveglia, e dopo un bel po' di pensieri mi sono assopito con il suo sorriso negli occhi... Era da tempo che non mi capitava più. Di solito lo porto nel cuore, quel sorriso meraviglioso, ma prima mi è tornato negli occhi ed è stato come averla lì, nuovamente, incredibilmente. Ho sognato di un pomeriggio che avevamo trascorso insieme a camminare nel bosco, "Ho bisogno di respirare", mi aveva detto. Così, con semplicità, come sempre faceva. Diceva le cose usando verbi che tutti i giorni utilizziamo, ma li rivestiva di un significato tutto suo. Era inverno, freddo e grigio, e ci eravamo vestiti con dei pesanti maglioni di lana, il largo cappello verde di quando andavamo a pescare e degli stivaloni per la pioggia. Come bambini affamati di vita, che non sanno riconoscere quel loro singolare appetito. E' buffo, ma se mi volto ora a guardare i volti degli sconosciuti che mi stanno a fianco mi pare di sentire ancora il profumo dei pini mughi di quel pomeriggio. Il sottile sentiero di montagna che ricalca un po' la stretta via di queste calli. Il colore del cielo, quando è talmente zeppo di nubi da divenire impenetrabile. E' tutto come quel giorno, solo che lei non c'è. E intorno a me ho solo persone che non conosco e di cui non mi interessa nulla. Troppo colore, miriadi di cappotti e sciarpe, suoni, risate distorte e lontane, occhi orientali, occidentali, facce sorridenti e felici. Macchine fotografiche su nasi all'insù, zaini voluminosi che mi sfiorano, l'odore salmastro del mare che a tratti mi lambisce le narici, strappandomi il ricordo dei pini mughi.
Non ce la faccio a non provare odio, non riesco a non invidiare chi viene qui con amici o parenti, in cerca di emozioni ed esperienze che diventeranno ricordi; quelli, io non posso più collezionarli. Respirare la felicità degli altri urta il mio cuore e non posso fare a meno di chiedermi, per l'ennesima volta, perchè. Mi chiudo per bene la cerniera della giacca, fino in cima, e abbasso il mento per infilarlo nel bavero, per reprimere l'impulso di gridare. Tiro fuori le mie cuffiette e scelgo l'ultimo album dei Green Day dal mio Ipod, ho bisogno di energia e non voglio fondermi col caos che mi circonda. Cammino veloce e provo quasi un'indegna soddisfazione nell'andare a sbattere addosso a chi mi ritrovo davanti; colgo sguardi infastiditi e stupiti, ma non me ne importa, bofonchio qualche incomprensibile scusa e proseguo sui miei passi. Sono quasi tutti stranieri, e in ogni caso nessuno capirebbe quello che avrei da dire. Ecco un'altra cosa che mi indispone, il pensiero di tutta questa gente che viene da lontano e occupa lo spazio, il mio spazio, qui lungo le strette viette che mi hanno visto felice. Che ne sanno loro di cosa significa davvero vivere, qui, andare a letto ogni sera con la piccola finestra vicino al bagno aperta e risvegliarsi ogni mattina con i rumori dello spazzino che raccoglie le immondizie all'alba, sentire le saracinesche del bar di Toni che piano piano si sollevano e fanno uscire poco alla volta il profumo del caffè e delle omelette calde come fosse un regalo, e i passi corti e distinti della signora Ana, poi, che prima dell'apertura va a fare le pulizie nel negozio di abbigliamento sotto casa. La magia di questo luogo sta in mille piccoli particolari che nessuno di loro può cogliere, andandosene, come tutti fanno, lungo i ciottoli che portano a San Marco, attraverso ponti e rialti, piazze e piccole corti.
Fa freddo oggi, l'anno nuovo è iniziato da poco e l'inverno è ancora giovane, forte e minaccioso. Accelero il passo, più per la percezione del gelo pungente che per il ritardo; dentro di me fa capolino quella sensazione di sfida al mondo intero che ormai ben conosco, come se cercassi in ogni modo di provocare delle reazioni negative negli altri. Ne sono consapevole, ma non riesco a smettere: quando capirò dove nascono le radici dell'ingiustizia, allora forse me ne farò una ragione, ma fino ad allora fanculo il mondo. Toh, ecco cosa mi ci vuole: appena girato l'angolo vedo la gente rallentare per passare attraverso una serie di panche disposte a raggiera; in fondo a sinistra nella piazzetta c'è uno stand di legno chiuso ai lati per non far passare il freddo. Festa di chissà quale santo, mi pare proprio una buona idea fermarmi per un brulè bollente. Mentre aspetto il mio turno, l'odore pungente delle spezie mi riscalda un po' l'anima; con il mio bicchiere poi mi scelgo un angolino sulla panchina che guarda al mare e me ne sto lì per non so quanto, la schiena girata in faccia al mondo e la musica nelle orecchie a proteggermi dal cicaleccio di chi mi ronza dietro. Penso a come tutto può cambiare in maniera irreversibile, quando lo si vede con occhi diversi, con occhi tristi e insanabili. Sono nato a Venezia e ci vivo da sempre, conosco ogni singolo angolo di questo luogo; gli edifici mi parlano, seguo l'avanzare della loro esistenza, muri che si scrostano e cambiano colore, crepe che diventano più vistose, panni stesi ad asciugare che si arrotolano al vento delle diverse stagioni. Ma tutto quello che mi è sempre stato familiare ora non riesce più a darmi sollievo. D'un tratto, appena appoggiata sul bordo dell'acqua, arriva una gondola, adagio; una coppia abbracciata sorride di un sorriso rivolto all'infinito, verso il gondoliere che immortala l'attimo felice con la macchina fotografica. Li vedo muovere le labbra, parlarsi e stringersi, e poi ridere, con le bocche spalancate da una gioia che non voglio sentire; alzo al massimo il volume dei Green Day, solo la musica nelle mie orecchie, un ritmo accelerato, che stride completamente con la scena che mi sta davanti, ma è così che mi sento io, non c'entro proprio più niente con questo mondo.
Arrivo al ristorante con più di un'ora di ritardo, i tavolini esterni son già pieni, raggruppati attorno ai funghi che riscaldano l'aria della veranda. Non è una calle principale, non si vede il mare da qui, ma l'atmosfera è talmente raccolta che pare di stare in una pagina di un libro di favole, e farne parte. Oscar mi accoglie con uno sguardo minaccioso ma non mi chiede nulla, forse per non turbare la quiete dei suoi ospiti; un po' mi dispiace, avrei voluto poter urlare, vomitare addosso a qualcuno il mio stato d'animo, mandare tutti a quel paese e andarmene via. Invece, entro subito nello spogliatoio, indosso la mia divisa e inizio il servizio. Dentro, il locale conserva una bellezza cristallizzata nel tempo: stretto e lungo, i lati adornati da piccoli archi di pietra antica. Ai muri è appesa la collezione di un fotografo amico del proprietario, immagini in bianco e nero che fermano il tempo. Ogni giorno, cerco di sfuggire a quelle foto, c'è qualcosa al loro interno che mi smuove l'anima, come un'indagine che scava in profondità in cerca delle emozioni più remote. Non fa per me, grazie. Passo tra i tavoli sorridendo alla gente, gentile, devo farli stare bene, rendere la loro permanenza a Venezia un'esperienza memorabile, perchè è questo il mio lavoro, ma me ne frego di tutti loro, detesto la loro felicità, la leggerezza dei loro pensieri, il loro tempo libero insieme alle persone care. Nella mia mente, riecheggiano i versi dei Green Day, continuo a cantare senza voce ed è ancora quel ritmo accelerato - così in contrasto con ciò che mi circonda - che mi fa stare a galla, che mi stacca completamente dal resto, che mi permette di sentirmi vivo, nonostante tutto. La serata procede come tante altre, mille volti diversi, mille storie che immagino felici. Il rituale è sempre lo stesso, sorrisi e piccoli inchini, consigli sul cibo tipico di queste zone, qualche parola in inglese, qualche altra in dialetto veneziano, quello che basta insomma per farli stare bene. La gente ride per delle sciocchezze. Servirli a questo modo mi permette un distacco che sento necessario, mantenere le distanze dalla vita che va avanti è ciò che mi aiuta a sopravvivere. Sono un sopravvissuto, mio malgrado.
Di domenica, per fortuna le ore passano più velocemente. Non c'è un attimo di pausa, è tutto un crescendo di ordini scritti e piatti pronti da portare ai tavoli; ho meno tempo per pensare, e questo in qualche modo mi solleva, ma è sempre l'idea della chiusura che si avvicina, a deliziarmi. Il momento in cui torno nello spogliatoio, mi tolgo la divisa e mi vesto velocemente per tornare al più presto libero, fuori, tra le braccia della mia città che di notte mi fa riappacificare un po' col mondo, ecco, è proprio questo l'attimo che preferisco in tutto il giorno. Sono già le due di notte, e il rumore che mi ha accompagnato all'arrivo non c'è più; è come se anche lui se ne fosse andato a dormire, insieme alla folla. Cammino lento, i ciottoli sono bagnati, a qualche ora dev'essere arrivata la pioggia. Quando lavori per tante ore chiuso in un luogo, ti perdi ciò che accade fuori; come quando te ne stai per conto tuo, nella vita di ogni giorno, e ti metti in pausa, chiuso nel tuo guscio, stai a guardare il mondo che vive e che respira e intanto ti perdi ciò che succede. E' quello che faccio io, lo so, ma se quello che succede mi fa morire, allora preferisco perdermelo.
Oggi era un giorno diverso, purtroppo, e per fortuna sta finendo; sono passati esattamente dodici mesi e ancora non mi do' pace. A volte mi chiedo perchè questi maledetti giorni continuino a scorrere; se avessi il potere di cambiare le cose, non solo tornerei indietro, ma vieterei anche al tempo di esistere, di passare come se nulla fosse, di andare avanti, semplicemente perchè "avanti" non c'è più nulla. Scendo gli scalini e il rumore vuoto dei miei passi rimbomba lungo la discesa; sopra la mia testa, luci di Natale ancora appese sventolano all'aria gelida della notte, come se il vento fosse qui per prosciugarne i dolori, svuotarle e lasciarle libere di guardare alle stelle che di sicuro verranno. Ai lati, saracinesche nere abbassate sui negozi del centro, orfani di tutti i volti che li hanno abitati nelle ore passate, lasciati soli a riposare prima che la luce del giorno ritorni a illuminarli. Sono l'unico essere umano in questo angolo di Terra, la solitudine che vive ormai da tempo in me si specchia, trovando la sua gemella nello splendore di questo momento sospeso. E' sempre questo, a curarmi, è l'anima di Venezia che si arrotola attorno alle mie ferite mettendole a tacere, perchè nelle ore della notte tutto deve tacere, anche il dolore di una morte, e si può solo andare avanti, camminare arrampicati ai propri pensieri, fianco a fianco con mille altre anime invisibili che non osano parlare, tra le calli sinuose ed eleganti, seguendo un filo che non c'è, annusando l'aria che punge senza schivarti, ammirati, consapevoli della propria infinita piccolezza, scorgendo talvolta un altro essere umano che avanza con le spalle curve, chiuso in se stesso, dai contorni indefiniti, con il quale scambiare un impercettibile sguardo di riconoscimento.
Ecco la magia che mi porta ogni notte a Piazza San Marco, e anche stanotte la sua vista mi toglie il fiato; la pioggia ha lasciato a terra miriadi di minuscoli specchi artificiali e le luci dei palazzi fanno a gara per tuffarvisi dentro, rifrangersi e correre via, fino al cielo, fino alla sua stella, fino a lei. Per una volta, vi prego, portatemi con voi.


Le tue foto vanno "meditate" guardandole. Questa immagine per me è pura poesia, degna di essere accompagnata non dalle mie umiili parole ma dai versi di Montale ne "La gondola che scivola in un forte". Montale compose questa poesia a Venezia, prendendo la realtà di ciò che viveva trasformandola in arte. "Dalla pura invenzione", annota il poeta, "non mi riesce, purtroppo, ricavar nulla" . E così fai tu Ivano. Catturi con la macchina fotografica e, senza inventarti nulla, trasformi la realtà in qualcosa di puramente artistico. Complimenti amico mio!
Tiziana Ruggiero

La gondola che scivola in un forte
Montale
La gondola che scivola in un forte
bagliore di catrame e di papaveri,
la subdola canzone che s'alzava
da masse di cordame, l'altre porte
rinchiuse su di te e risa di maschere
che fuggivano a frotte -
una sera tra mille e la mia notte
è più profonda! S'agita laggiù
uno smorto groviglio che m'avviva
a stratti e mi fa eguale a quell'assorto
pescatore d'anguille dalla riva.

Un senso di nostalgica e profonda solitudine accompagna il buio dell'immagine e forse la figura dell'uomo che ha fretta di uscire dal vuoto di questo magico, ma al momento triste, percorso. Ma c'è qualcosa nella foto, nella gioia del fermare i festoni delle luci che accendono la via e il "notturno veneziano", ed è la memoria della festa, la gioia delle piccole lampadine che ricordano è vero i periodi festivi, il Natale, ma anche le luci antiche e allegre, per chi le ha vissute nella semplicità del poco, del Luna Park, del tiro a segno....e tutto anche la buia via si accende, si illumina come se fosse Venezia di giorno. E c'è sempre, continuo a ripeterlo a "futura memoria" come direbbe Sciascia, dentro alle foto di Ivano Mercanzin la poetica del raccontare le emozioni più semplici, che hanno il sapore dei propri ricordi, ma che divengono emozione e sentimento comuni. Sono i piccoli grandi racconti della poesia di quello che chiamiamo il "banalissimo" sentimento, che pochissimi conoscono, del "cuore". Bella foto…mi emoziona con tutti i suoi ricordi.
Lorenzo Crinelli

Quando si chiudono gli occhi delle sirene ammaliatrici, le luminarie diventano una volta celeste stellata. E passeggiare diventa un dolce navigare nel mare del ricordo.
Chiara Lana

Che meraviglia passeggiare per Venezia di notte, poterlo fare in tutte quelle realtà urbane dove le luci si affievoliscono ma non si spengono mai! Potersi permettere quella cammianta lenta e concentrata su sè stessa dove il suono dei propri passi accompagna i pensieri ed il ritorno o la partenza da persone od abitazioni che si fondono nell'eco prodotto dagli stessi!
Paola Palmaroli

Notturno veneziano...Poche cose se non rilevare nello stesso ritmo della ripresa e nell'apertura della larga visione che questa è Venezia nel bene e nel male; nella sua romantica ma anche triste e amara solitudine, nei suoi vuoti silenzi invernali, nelle sue piazzette piene di atmosfera sospesa e apparentemente incantata e satura di assenze che si anima poco col la luce del giorno e molto con l'allegra, ma nostalgica e a volte malinconica, gioiosità dei colori e delle maschere del carnevale che la riportano per un po' ai suoi antichi splendori.
Lorenzo Crinelli

Tanto ostenta la sua spregiudicata bellezza di giorno, quanto malinconicamente si mostra in apparenza silenziosa e quieta di notte. I tuoi scatti Ivano delineano con grande eleganza le caratteristiche di Venezia, una delle città più belle del mondo. Ho assaporato in sequenza questi tuoi scatti mettendo un sottofondo musicale che ben si sposa con essi, secondo me: "La patetica" (da pathos:emozione), una sinfonia bellissima di Tchaikovsky dove il fagotto grave, solo, si esibisce sopra i violini, e i tempi passano dal fortissimo al pianissimo, in un vortice di suoni che ti prende l'anima e i pensieri, proprio come Venezia è e sa fare.
Tiziana Ruggiero

-graffiti a Rialto -
Sembrano voler scandire, come in parte per ragioni diverse la stessa figura che rapida e fugace e in silenzio percorre il ponte nella solitudine di Rialto e di Venezia, i ritmi non molto edificanti dei tempi in cui troppo spesso i "graffiti" delle proprie "manie" di essere e sentire coinvolgono, sporcano tutto e tutti con i propri segni in luoghi che non ne avrebbero proprio bisogno. E l'occhio e l'attenzione, è la ribellione al non senso che diventa atto di velata ma precisa denuncia, si fermano con stupore e forse sorpresa a riprendere, nella bellezza di un silenzio che spesso è anche assenza, dei bandoni in un luogo stupidamente violato.
Lorenzo Crinelli


In the same theme Arthur Symons, a British poet also wrote a poem called 'Venetian Nights'. The poem starts like this-"Her eyes in the darkness shone in the twilight shed/ By the Gondola bent like the darkness over her head ......." & ends in- " I saw her eyes shine subtly, then close a while/ I remember her silence and in the night, her smile".
Anjan Chakraborty

Una magica atmosfera, con una patina antica ma sempre sorprendentemente nuova, connaturata al luogo certo ma che sempre si rinnova e sorprende e che spesso più che alle luci, che danno questo magico sospeso incanto, è l'attento taglio, l'inquadratura che arricchisce l'immagine, con i segni distintivi dei ponti delle cancellate e delle tante finestre, di tanto prezioso stupore pieno di quei sospiri di cui la città sembra esserne piena. Ripeterei...ma vale la pena di farlo: dietro l'immagine c'è il tuo modo caro Ivano Mercanzin di guardare - forse anche di essere e di proporti perché in quell’osservare un po’ ti ci ritrovi - ma soprattutto c'è il tuo modo di sentire e di saper vedere sempre la poesia anche quando questa si è consumata e spenta sui quei muri, che non è poco, sono ormai solo memoria.
Lorenzo Crinelli​

Tra la luce e la notte

Sarà la notte,
fedele come sempre,
a chiudere le finestre
verso questo mondo.
Lo zampillo di voce sussurrerà
un motivo misterioso
e, non so perché,
mi torna in mente
un suono malinconico,
che sorregge ora
il mio volto
pensieroso.
Sarà la mia amata notte
a colorare le labbra
di rosso,
le ciglia color ceneri,
ormai spente,
e tra il fumo di una sigaretta
e lo specchio di vita
che appanna l’ultimo respiro
sarò regina
nel suo sguardo
impetuoso.
Quella notte sarà
il mio vicolo cieco,
la fermata prima dell’oltre,
la sentenza senza un processo.
D'altronde la morte
dall’imperatore fino al mendicante
tra la luce e la notte,
per tutti,
é la stessa.

(Nadezhda Slavova)

Distante, la città, ma magicamente vicina con i fari delle sue luci serali che rendono solo parziale, perché incantata e sospesa nella voce della notte, giustizia alla sua regale ricamata bellezza, al suo chiaccherato splendore, alle sue colorate e fantasiose vanità e allegrie che emergono tuttavia anche dal buio che si distende nel cielo con uno dei suoi tanti simboli, il campanile della Basilica di San Giorgio Maggiore, che la identificano e la rendono, vale sempre ripetersi, unica. E c’è lo stupore, lo si avverte dolcissimo, dell'acqua, del suo movimento che fa muovere le gondole che graffiano di luminescenze, con il cappello del doge, l'aria che stranamente, tanto è lento e bellissimo quel moto, mi ricorda il dondolare dei cavalli che scorrono sulle antiche giostre dell'infanzia. E chissà perché tornano alla mente, l'infanzia, la giostra, i colori, la sua luce, l'eterna allegria che si alterna a momenti di tristezza, il parlare animato dei turisti e sempre nel cuore il suo magico confortante ricordo. Che sospiri e quanti sogni ancora ci regalano, Ivano Mercanzin, questi tuoi fantastici notturni!
Lorenzo Crinelli

La bellezza della notte
devo aver pensato il momento metamorfosato
della giornata, quando ho pensato alla bellezza
della notte, alla snaturata, giunonica tenerezza
delle tenebre:
devo averlo pensato
sotto il domininio dell'esaltazione, ripagandomi
del vuoto anonimo del giorno:
e pensare
che mi sarei accontentato di vederlo, solamente,
pieno di stelle, il cielo: con la luna in mezzo:
Salvatore Fittipaldi


notturno veneziano

leggere si insinuano le ombre
su selci e marmi
su muri scrostati
tra rami di improbabili lecci

ultime sentinelle di luce
riversano cascate di umori
nel campiello
custode di furiose passioni

vele setose di pensieri antichi
in cerca di nuovi amanti
scivolano rasenti le acque di mare
si insinuano dai canali alle calli

il candore di pupille ravvicinate
contornano iridi stellate
testimoni luminose di nuovi affanni
attimi irripetibili
flash d'amore

la luna azzurra culla nel sonno
i nuovi figli
sotto la sicura coltre di stelle

giuseppe iovio
vicenza

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