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Il viaggio necessario

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poesie di Raffaele Luise
fotografie di Ivano Mercanzin
Gambini editore (già Intermedia edizioni)

Introduzione di Raffaele Luise

Perché “viaggio necessario”?
Innanzitutto perché la vita è viaggio. Anzi, il viaggio è la vera Patria dell’anima, come
afferma Kazantzakis.
Poi, perché l’autentico viaggio, assolutamente libero, imprevedibile e aperto, e dunque costitutivamente
rischioso, tocca il cuore incandescente della vita.
E come il vento-anemos in greco, e dunque anima- il viaggio ti porta là dove trovi la tua anima. E in questo risiede la sua
“necessità”, in quanto tensione esistenziale e spirituale al tempo stesso, verso un Oltre e un Altrove che apre al rischio
della creatività, dell’immaginazione, dell’inquietudine e dell’incompletezza, e la cui rotta e l’approdo comprendiamo
solo al suo epilogo.
Un viaggio, che in questo percorso lirico si configura come passaggio attraverso tre dimensioni, ad ogni passo intrecciate
intimamente tra di loro: l’amore, il mare e Dio.
L’amore è la scaturigine - sempre - del viaggio, e il suo simbolo più perfetto è l’estasi per la donna (ma questo non
esclude ogni altro tipo di amore autentico). Ma ogni viaggio, anche quello del pensiero e della ragione, ha la sua origine
nell’amore, e qui la pronuncia poetica attinge alla mitologia, alla filosofia e alla teologia, rivelando il volto forse più disatteso
della poesia, quale massima e più radicale ermeneutica della Realtà e del suo mistero: un’ermeneutica di partecipazione,
attenta e visionaria. È la grande lezione di Raimon Panikkar; ma lo afferma anche uno scienziato del calibro di
Carlo Rovelli quando sottolinea la profonda corrispondenza che esiste tra la visionarietà della grande ricerca scientifica e
la visionarietà della grande poesia.
Il secondo momento è rappresentato dal mare, simbolo vivo e metafora potente al tempo stesso della Natura, della
MadreTerra, dell’inconscio umano e dell’anima mundi. Dal mare – dono e semenza celeste - nasce non a caso la vita
e dall’oceano nasce anche Afrodite, la dea dell’amore. Di fronte al dramma ecologico, alla crisi climatica, che in realtà
è crisi planetaria e nelle sue profondità malattia dell’anima, e a cui è intimamente collegato il flagello della Pandemia, il
canto si fa più urgente e visionario, e la poesia si fa capace di “capire”, come dall’interno, che Tutto è vivo, che non esistono
cose inanimate e inerti, che non ci sono enti nè eventi, ma che tutto è esistente nell’unica famiglia universale dei
viventi. E che la sconfinata trama delle differenze è come “unificata” dai legami di una fraternità globale. Il che esige
una nuova visione da parte dell’uomo, che sia in grado non solo di rispettare i diritti di ogni creatura, ma anche di saperne
ascoltare la voce e l’appello. In questo senso, il “viaggio necessario” si fa più stringente e drammatico!
E infine Dio, che è la terza dimensione del viaggio, che tutte le attraversa. Il Divino, che ne è il misterioso alfa ed omega,
l’origine e l’approdo, e in qualche modo il viaggio stesso. E la poesia si fa così canto sacro, rito cosmico.

POESIE

Nevischiava

Nevischiava, trepido e lieve
in quella piazza sul trono degli Appennini. Nella nebbia dei fiati vicini
-così vicini-
respiravamo l’uno dall’altra.
La neve, come un mare quantico turbinava nella sera bianca
e danzava nelle nostre vene.
Nevischiava,
ma tu – incurante-
mi guardavi, mi guardavi assorta...
finché il tuo sguardo coprì tutto lo spazio del mondo, e dai tuoi occhi - d’un tratto -
con la potenza d’un fiume che ritrova la luce,
la tua anima volò nella mia
(e il mio cuore si fece cavo per accoglierti).
Quei tuoi occhi,
vampe di fuoco nella neve,
mi trafissero come le rondini il cielo a primavera!
Nevischiava nell’opalescenza dei radi lampioni, e tu ormai bevevi direttamente
dalla coppa del mio cuore.
Ovattate litanie giungevano
da sparsi grumi di luminarie.
Era Natale, e tu nascevi dentro di me!

Schegge di luna

Una notte di luna insieme alla deriva su una barca
ci portava Dio.
Una malia arcana avvolgeva il mondo,
e seminava i tuoi occhi
nell’immensità.
Come uno sciamano,
Armonia, per un attimo
irruppe nelle vene dell’Universo.
E la gioia straripò.
Ma non resse il mondo quella passione. La visione s’infranse
e mille schegge di luna
mi trafissero il cuore.
Ti persi Amore nell’onda nera naufragammo,
e pure Dio s’inabissò con noi.

Sera Mediterranea

Sulla soglia dell’autunno dolcemente muori giorno e l’oro si perde
in una fuga di colori
che, come bambini, giocano sui rami del cielo.
Su questa spiaggia -
estremo promontorio dell’essere, si sfibra il mio cuore e canta
coi divini frutti del Mediterraneo - il pane i fichi e il vino,
nettare degli dei
che qui poneste la vostra dimora.
Un’aura arcana
come gioia primigenia
mi scioglie nei profumi
della tua sera, Mediterraneo.
E in questa sera delle mie sere, ritrovarsi acqua
che sogna l’eterno.

L’Autore

Raffaele Luise è il Decano dei Vaticanisti della Rai, dove ha lavorato come Inviato Speciale per più di trent’anni, seguendo in Italia e nel mondo i pontificati di Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI e i primi anni di quello di Francesco. Ha, in diverse occasioni, intervistato i tre Pontefici.
È stato Inviato di guerra, sui fronti più drammatici del mondo, nel trapasso tra fine del Novecento e primi anni del Duemila: in Somalia, in Iraq e a Sarajevo. Tra i massimi esperti del Dialogo interreligioso e interculturale, ha promosso numerosi Convegni sul tema e svolto docenze in diverse Università italiane.
Ha insegnato Giornalismo televisivo presso l’ Università Lumsa di Roma.
È autore di: L’ecumenismo da Basilea a Seul, in Quaderni del Circolo Rosselli (1991); I tre Monoteismi in dialogo, in Quaderni del Circolo Rosselli (1992), editi da Franco Angeli.
La visione di un monaco. Il futuro della fede e della chiesa nel colloquio con Benedetto Calati (2000), bestseller dell’editoria cattolica; Cenacoli di resistenza. Quando i contemplativi delle diverse religioni del mondo pregano per la pace (2004); Dubbio
e Mistero: a colloquio con Norberto Bobbio, (2006), l’ultima intervista rilasciata dal grande Intellettuale; Chiedi alla sabbia. Sulle tracce di Charles de Foucauld (2007), editi da Cittadella Editrice.
Raimon Panikkar. Profeta del dopodomani (2011); Con le periferie nel cuore (2014), editi da Edizioni San Paolo. Testimone della misericordia. Il mio viaggio con Francesco. Conversazioni con Raffaele Luise, Walter Kasper e Raffaele Luise (2015), Garzanti, tradotto in quattro lingue. Diversi altri Scritti sono apparsi in volumi collettanei.
Solo Amore è il suo approdo poetico.
È autore del blog Vaticano Mondo: www.vaticanomondo.com

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Dopo "Solo Amore" una nuova collaborazione con Raffaele Luise: "Il Viaggio Necessario".



Calligrafie di Coney Island di Petra Casotto

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Un incontro di Ivano Mercanzin

Passeggiavo in un storica stamperia di Vicenza (Stamperia d’Arte Busato) per alcuni scatti di questo luogo magico e sospeso nel tempo, con ancora un’artigianalità artistica e una cura del dettaglio come nel passato, ma con uno sguardo a molti artisti contemporanei, quando mi sono imbattuto in Petra Casotto che stava spiegando l’arte della “calligrafia” alle persone presenti.

Mi sono incantato ad osservare alcune sue opere e ne sono rimasto affascinato. Libri, libriccini, agende, diari , segnalibro, cartoline per tutte le occasioni e rigorosamente fatti a mano ed esclusivi.

In particolare mi ha colpito il libro di un un suo viaggio in Islanda in cui alcune foto erano stampate su carta pregiata, orientale, mi sembra, con la copertina decorata con alcuni suoi disegni ma soprattutto vi erano i testi scritti con una calligrafia originalissima che diventava essa stessa un’opera d’arte.

In quel momento non l’ho disturbata ma poi a casa ci ho pensato e l’ho contatta proponendole un progetto insieme con le mie foto di Coney Island a cui ha aderito fin da subito.

Qui un’ anteprima di alcuni libri da lei realizzati con le mie foto e con i miei testi di Coney Island reinterpretati da Petra che con i suoi disegni e le sue personalissime calligrafie ha creato delle vere e proprie opere d’arte uniche ed esclusive e del tutto personalissime.

I libri, le tavole, i diari, le agende e altro saranno esposte in varie fiere dell’arte (appena sarà possibile) insieme alle mie foto e l’organizzazione è stata affidata in esclusiva alla galleria internazionale

CONTEXT ART GALLERY che trovate a questo link

Mentre il progetto fotografico completo lo trovate qui: (Ivano Mercanzin – Coney Island)

mentre altri lavori di Petra Casotto sono qui.

Qualcosa di lei:

“Carta ed Inchiostro sono i protagonisti della mia ricerca espressiva. Adoro la carta e la sua estrema versatilità: ciò che si può creare con questa materia e ciò che si può scrivere e disegnare su di essa. Il mio percorso artistico inizia nel 2006 alla Bottega del Tintoretto a Venezia, dove seguo nel tempo i Corsi di Disegno, Incisione e Stampa d’arte con i maestri Roberto Mazzetto, Sara Flores Vio e Florence Faval. Da qualche anno mi sono appassionata allo studio approfondito della Calligrafia formale ed espressiva. Ciò che creo nasce dal desiderio autentico di dare spazio a quello che ho imparato e alle mie emozioni più profonde, riscoprendo il valore e l’unicità di ciò che viene scritto e realizzato rigorosamente a mano.

TESTI di Ivano Mercanzin tratti dall'intervista a Witness Journal che trovate completa qui

“A Coney Island mi sono ritrovato in un mondo surreale, come all’interno di una favola in bianco e nero. Il non colore che sembra poesia con mille sfumature nei toni del grigio. E’ silenzio, assenza di rumore se non quello del mare, un naturale suono che culla la mente e accompagna i pensieri lasciandoli fluire senza interruzione, finalmente liberi di vagare.”

“E’ silenzio, assenza di rumore se non quello del mare, un naturale suono che culla la mente e accompagna i pensieri lasciandoli fluire senza interruzione, finalmente liberi di vagare.”

“Le foto raccontano storie e mondi altrui ma nel profondo, è la tua anima che si svela.

“Sento i profumi, i colori, i silenzi. Cerco di fiutare l’aria lasciando libere le mie emozioni. La macchina fotografica come un prolungamento delle mia anima.

“Sento i profumi, i colori, i silenzi. Cerco di fiutare l’aria lasciando libere le mie emozioni. La macchina fotografica come un prolungamento delle mia anima.”

“Le foto raccontano storie e mondi altrui ma nel profondo, è la tua anima che si svela.”

“La fotografia non deve rappresentare ogni cosa anzi deve togliere il più possibile, lasciando solo pochi elementi sparsi che possano essere carpiti ed interpretati dall’osservatore. Egli costruirà un racconto personale e lo completerà con il proprio vissuto, con le emozioni e con il proprio sguardo interiore.”

“Sento i profumi, i colori, i silenzi. Cerco di fiutare l’aria lasciando libere le mie emozioni. La macchina fotografica come un prolungamento delle mia anima.”

“Il mio è un racconto lieve, leggero, quasi impalpabile. Il bianco ed il nero descrivono tutto questo con delicatezza, in modo poetico, senza contrasti.

Lontananze, figure appena abbozzate, a volte perse tra la nebbia, mai vicine, come sospese in un paesaggio surreale. Osservando i miei scatti mi piace definire la mia Coney Island il luna park dell’anima”.

“A Coney Island mi sono ritrovato in un mondo surreale, come all’interno di una favola in bianco e nero. Il non colore che sembra poesia con mille sfumature nei toni del grigio. E’ silenzio, assenza di rumore se non quello del mare, un naturale suono che culla la mente e accompagna i pensieri lasciandoli fluire senza interruzione, finalmente liberi di vagare.”

Un incontro di Petra Casotto

Un incontro casuale e una sensazione che prometteva… così nasce questa speciale collaborazione. L’idea è quella di unire immagini e parole: fotografie e racconti di viaggio.

Per il lavoro ho utilizzato della carta pregiata orientale sulla quale ho trasferito le fotografie utilizzando un semplice medium acrilico. Sulle fotografie così trasferite ho poi scritto liberamente i testi. Ad ogni fotografia è stato abbinato un testo diverso ed una scrittura diversa. Il punto di partenza è la Scrittura Italica corsiva, diffusasi in Italia nel 1400, nella sua versione più formale. Ho creato poi alcune variazioni personali più espressive, modificando la qualità del segno, la forma delle lettere ed il ritmo della scrittura.

Tavole

Formato 45x60cm

Inchiostro Sumi su carta artigianale orientale Hokosawa

Libri

Formato – libro chiuso – 20×20 cm

Inchiostro Sumi su carta Arches e su carta artigianale orientale Hokosawa

INTERVISTA: vernice.artmagazine 2019

date » 04-08-2019 12:03

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tags » ivano.mercanzin@gmail.com, vernice art magazine, intervista,

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INTERVISTA DI VERNICE-ART MAGAZINE

COSA TI HA PORTATO A DIVENTARE UN’ARTISTA? COME E’ INIZIATO IL TUTTO?
Vi ringrazio di questa definizione che mi sembra alquanto altisonante. Mi sento un racconta-storie, cerco almeno di esserlo anche perché mi sono reso conto che è un valido strumento per conoscere meglio se stessi e le persone che ti stanno intorno. La rappresentazione in immagini, come qualsiasi altra arte, ti porta inevitabilmente a entrare nel profondo, a scandagliare i recessi della tua anima, a entrare in sintonia con i livelli più profondi del tuo sentire. Tutto ciò poi emerge nell’osservatore delle tue immagini che rimane coinvolto emozionalmente grazie alla forza evocativa della fotografia.
E’ iniziato tutto apparentemente per caso solo nel 2012, ma in maniera prepotente dato che non trascorre giorno che non faccia qualcosa che abbia a che fare con la fotografia, scattare, leggere, documentarmi, studiare, stampare libri, scrivere di fotografia e curare le collaborazioni con scrittori, poeti, performer e altri artisti.
Ritengo che la fotografia sia, di fatto, il mio linguaggio espressivo che più di altri è riuscito a far breccia in me. Sono partito, infatti, con il conoscere e approfondire la letteratura, la poesia, la pittura e la scultura e sentivo la necessità di esprimermi in maniera “artistica” e così per caso ho acquistato una macchina fotografica e ho cominciato a usarla sorprendendomi del fatto che piano piano stava diventando un nuovo linguaggio che racchiudeva in se tutte le mie passioni.

What has you taken to become an artist? How has it all started?
I thank you for this definition, which seems to me to be quite high-sounding. I feel like a story-telling, at least I try to be one because I realized that it is a valid tool to learn more about yourself and the people around you. The representation in images, like any other art, inevitably leads you to enter into the depths, to probe the recesses of your soul, to tune into the deeper levels of your feeling. All this then emerges in the viewer of your images who remains emotionally involved thanks to the evocative power of photography. It all started apparently by chance only in 2012, but in an overbearing way since it does not spend a day that does not do something that has to do with photography, take, read, document, study, print books, write about photography and take care of collaborations with writers, poets, performers and other artists. I believe that photography is, in fact, my expressive language that more than others has managed to break through in me. In fact, I started learning about literature, poetry, painting and sculpture and I felt the need to express myself in an "artistic" way, and so by chance I bought a camera and started using it surprisingly that slowly it was becoming a new language that contained all my passions”.

QUAL E’ LA TUA PIU’ GRANDE FONTE DI ISPIRAZIONE?
Mi reputo molto fortunato perché la passione per le arti in genere, come ho scritto in precedenza, mi ha sempre accompagnato e questo meraviglioso mondo influenza di continuo la mia sensibilità facendo emergere la necessità di esteriorizzare le mie emozioni attraverso la fotografia. Ecco quindi che le fonti d’ispirazione, le cerco all’esterno, tra la gente, nei paesaggi, nei dettagli anche i più insignificanti, nel poco e nel minimo. Spesso le mie fotografie hanno pochi dettagli, sono essenziali, non c’è mai caos o confusione, ci sono pochi elementi, cerco di “togliere” il più possibile in modo che sia l’osservatore a comporre l’immagine in base ai suoi ricordi, alla sua memoria. In questo caso avviene quello strano fenomeno, quasi di transfer, tra le tue emozioni e quelle dell’osservatore, anche se non lo conosci e non sa nulla di te. E qui risiede la grande importanza della fotografia, la sua forza evocativa che travalica tempo e spazio.

What is your most great source of inspiration?
I consider myself very fortunate because the passion for the arts in general, as I wrote earlier, has always accompanied me and this wonderful world continually influences my sensitivity by bringing out the need to externalize my emotions through photography. Here, then, that the sources of inspiration, I look for outside, among the people, in the landscapes, in the details even the most insignificant, in the little and the minimum. Often my photographs have few details, they are essential, there is never chaos or confusion, there are few elements, I try to "remove" as much as possible so that the viewer is able to compose the image based on his memories , to his memory. In this case the strange phenomenon, almost of transfer, takes place between your emotions and those of the observer, even if you don't know him and he knows nothing about you. And here lies the great importance of photography, its evocative power that transcends time and space”.

RACCONTACI DI PIU’ RIGUARDO IL TUO PROCESSO CREATIVO
Ansel Adams ha ben sintetizzato questo concetto con uno dei suoi più famosi aforismi: “Non fai solo una fotografia con una macchina fotografica, tu metti nella fotografia tutte le immagini che hai visto, i libri che hai letto, la musica che hai sentito e le persone che hai amato.”
Ecco quindi che le “contaminazioni” artistiche diventano fondamentali alla realizzazione dei miei progetti fotografici. E in ogni istante, dalla visione iniziale, allo scatto, alle elaborazioni successive e all’editing finale tutto ciò viene filtrato dal mio vissuto e diventa la “mia” fotografia. Ritengo che solo attraverso questo processo interiore si riesca a realizzare immagini che contengano in sé delle emozioni.

Tell us more about your creative process
Ansel Adams has well summarized this concept with one of his most famous aphorisms: "You don't just take a photograph with a camera, you put in the photo all the images you saw, the books you read, the music you heard and the people you loved. " Thus the artistic "contaminations" become fundamental to the realization of my photographic projects. And in every moment, from the initial vision, to the shot, to the subsequent elaborations and to the final editing, all this is filtered by my experience and becomes "my" photography. I believe that it is only through this inner process that we are able to create images that contain emotions in themselves

QUAL E’ IL TUO ARTISTA PREFERITO DI TUTTI I TEMPI E PERCHE’?
Tra i miei preferiti Francesca Woodman, Helmut Newton, Robert Mapplethorpe, Daido Moryama, Todd Hido, Alex Webb e molti altri. Come vedi stili diversi tra loro e anche per qualcuno molto lontani dal mio genere fotografico. Ma per questo mi affascinano perché sento sempre la necessità e la curiosità di sperimentare nuovi linguaggi espressivi e di mettermi in discussione, partendo da zero.

What is your favorite artist of all times and why?
My favorites include Francesca Woodman, Helmut Newton, Robert Mapplethorpe, Daido Moryama, Todd Hido, Alex Webb and many others. How do you see different styles between them and also for someone very far from my photographic genre. But for this reason they fascinate me because I always feel the need and curiosity to experiment with new expressive languages and to question myself, starting from scratch”

COSA TI PIACE FARE QUANDO NON STAI FOTOGRAFANDO?
Come già detto prima la fotografia, occupa un posto importante nella mia vita e il tempo che le dedico è quasi tutto il mio tempo libero. In alternativa ascolto musica di vario genere, jazz in prevalenza, leggo poesie, qualche racconto, studio i fotografi famosi, guardo film d’autore. Tutti stimoli che poi sento che mi arricchiscono spiritualmente e mi permettono di raccontare in fotografia le “mie” storie.

What you like to do when you are not photographing?
As I said before, photography occupies an important place in my life and my time is almost all my free time. Alternatively, I listen to music of various kinds, mostly jazz, I read poems, a few stories, study famous photographers, watch author films. All stimuli that I then feel that enrich me spiritually and allow me to tell "my" stories in photography”.

QUAL E’ LA PIU’ GRANDE SFIDA IN CUI TI SEI IMBATTUTO COME ARTISTA?
Comprendere che non devi soffermarti e sposare un solo genere fotografico, ma aprire la mente e lasciare che il flusso della creatività scorra liberamente. Mi è capitato, infatti, che nella stessa settimana abbia sperimentato la lontananza e la vicinanza con le persone con due progetti completamenti diversi tra loro. Nel 2015 ero a NY per la mia prima mostra, “Venezia Visioni e Illusioni” e la galleria si trovava a Manhattan. Ogni giorno mi spostavo dal Queens, dove alloggiavo, a Manhattan e mi sono accorto in quel momento che mi affascinavano le persone nella subway e dintorni. Ho cominciato a scattare per cercare di cogliere le emozioni di quei brevi momenti di contatto tra me e loro e ne è uscito il racconto “The face (s) of NYC”, visi e corpi molto ravvicinati nella loro quotidianità (scattavo senza farmi notare tenendo la macchina appesa ma mai davanti agli occhi). Sempre lo stesso periodo, un altro racconto, “Coney Island” completamente diverso: un luna park a dicembre chiuso con pochissime persone che passeggiavano in questo luogo deserto e desolato. La spiaggia e l’oceano a fare da cornice. Quasi un paesaggio onirico completamente diverso da “The Face” eppure affascinante, poetico e come sospesa in un’atmosfera surreale, l’ho definito il Luna Park dell’anima.

What is the largest challenge in which you have been understanded as an artist?
Understand that you must not dwell and marry a single photographic genre, but open your mind and let the flow of creativity flow freely. It happened to me, in fact, that in the same week he experienced the distance and closeness with people with two completely different projects. In 2015 I was in NY for my first show, "Venezia Visioni e Illusioni" and the gallery was in Manhattan. Every day I moved from Queens, where I was staying, to Manhattan and I realized at that moment that people in the subway and surroundings fascinated me. I started shooting to try to capture the emotions of those brief moments of contact between me and them and the story “The face (s) of NYC” came out, faces and bodies very close in their everyday life (I shot without letting myself be noticed holding the car hanging but never before the eyes). Always the same period, another story, "Coney Island" completely different: a funfair in December closed with very few people walking in this deserted and desolate place. The beach and the ocean are the setting. Almost a dreamlike landscape completely different from "The Face" and yet fascinating, poetic and suspended in a surreal atmosphere, I called it the amusement park of the soul”.

CHE TIPO DI CONSIGLIO DARESTI AD UN ARTISTA EMERGENTE, NUOVO NEL MONDO DELLA SCENA ARTISTICA?
Di stimolare la creatività e la sensibilità aderendo a tutte le iniziative “artistiche” possibili lasciando aperta la mente a provare nuove esperienze culturali, interagendo con le persone con cui si viene a contatto e poi disciplina e impegno e crescere in caso di sconfitte per avere nuovi stimoli. Poi il resto viene da sé, con questo esercizio di sensibilità la fotografia arriva da sola, anzi è lei che si fa avanti, ti si presenta e tu non devi fare altro che scattare, perché il processo di creazione si era già formato dentro di te.

What kind of advice would you give to an emerging artist, new in the world of artistic scene?
To stimulate creativity and sensitivity by adhering to all the "artistic" initiatives possible, leaving the mind open to try new cultural experiences, interacting with the people you come in contact with and then discipline and commitment and grow in case of defeats to have new ones stimuli. Then the rest comes by itself, with this exercise of sensitivity, photography comes by itself, on the contrary, it is she who comes forward, presents herself to you and you don't have to do anything else but shoot, because the creation process was already formed inside you”.

QUAL E’ IL TUO SOGNO PIU’ GRANDE?
A dire il vero mi sembra già di vivere un sogno, grazie alla fotografia che mi sta dando sempre più soddisfazioni. Mi offre anche nuove opportunità e “contaminazioni” sorprendenti, per esempio una collaborazione con una scrittrice che ispirandosi alle mie foto ha scritto alcuni racconti pubblicati in un libro, un editore che mi ha chiesto delle foto inedite per una raccolta di poesie poi diventate un libro, un’artista-performer con la quale stiamo facendo un lavoro molto interessante sull’Anima Manifesta, una allegoria dell’anima selvaggia, una galleria d’arte che mi ha commissionato un lavoro molto interessante sulla reinterpretazione di oggetti comuni che attraverso la fotografia assurgono ad opere d’arte. E chissà che altro ancora…

What is your largest dream?
To tell the truth it seems to me already to live a dream, thanks to the photography that is giving me more and more satisfactions. He also offers me new opportunities and surprising "contaminations", for example a collaboration with a writer who, inspired by my photos, wrote some stories published in a book, a publisher who asked me for unpublished photos for a collection of poems and then became a book , an artist-performer with whom we are doing a very interesting work on the Soul Manifesta, an allegory of the wild soul, an art gallery that commissioned me a very interesting work on the reinterpretation of common objects that through photography rise to works of art. And who knows what else “.

Bio
Ivano Mercanzin vive a Montecchio Maggiore(VI), studia disegno e pittura con il maestro Vincenzo Ursoleo, partecipa a concorsi di poesia ricevendo premi e menzioni. La lettura di autori classici e contemporanei accompagnano il suo percorso e lo studio e le mostre di grandi pittori e scultori moderni e contemporanei completano la sua formazione. Come un'illuminazione ecco arrivare il 2011, quando esplode dentro di lui " La Fotografia" e il 31.12.11 l'acquisto della prima macchina digitale.
Osserva, filtra, cristallizza e come un alchimista le immagini fuoriescono prepotenti e invadono lo spazio librandosi negli anfratti della memoria. Venezia, Terra Madre, The Face(s)of NYC, Coney Island, Fornace Venini,21 grammi, Boys don't cry, Lio Piccolo sono alcuni dei suoi progetti.

Ivano Mercanzin lives in Montecchio Maggiore (VI), studies drawing and painting with the maestro Vincenzo Ursoleo, participates in poetry competitions receiving prizes and mentions. The reading of classical and contemporary authors accompany his journey and the study and exhibitions of great modern and contemporary painters and sculptors complete his training. As an illumination, 2011 arrives, when "La Fotografia" explodes inside him and on 31.12.11 the purchase of the first digital camera. Observe, filter, crystallize and as an alchemist the images come out overbearing and invade the space hovering in the recesses of memory. Venice, Terra Madre, The Face (s) of NYC, Coney Island, Fornace Venini, 21 grams, Boys don't cry, Lio Piccolo are some of his projects.

http://picdeer.com/vernice.artmagazine




Lio Piccolo

date » 16-06-2019 07:46

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tags » poesia, poesie, lieto colle, lio piccolo, lino roncali, fotografie,

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Lio Piccolo
poesie di Lino Roncali
immagini di Ivano Mercanzin
collana soloventi
editore LietoColle

A questo link il progetto fotografico completo

per acquistare il libro


INTRODUZIONE DI GIAN MARIO VILLALTA

Un lido dell'io

Lino Roncali ha scritto, serbato, riscritto queste poesie per un tempo lungo abbastanza per far sì che diventino parte della memoria, e non soltanto resoconto dell'esperienza. Per questo hanno il sapore di un vissuto che non è solo incontro con un luogo e sorpresa per la sua unicità.
Nella nostra esistenza attuale, che ci invita al turismo (sotto ogni suo aspetto), spesso è fastidiosa la presunzione che un altrove sia sufficiente a parlare di sé in quella forma dell'interrogazione, che è propria della poesia, dove l'io è chiamato a restituire all'esperienza una voce non effimera, radicata nel tempo.
Una voce ferma e disarmata, ironica senza darlo troppo a vedere, nostalgica ma di una nostalgia epurata di ogni sentimentalismo è quella che incontriamo in questi componimenti. E ben corrisponde alle immagini che la accompagnano, di Ivano Mercanzin, che fruttano un gioco di parole esplicito con il toponimo di riferimento: Lio piccolo e L'io piccolo, parola e immagine, si contendono evocazione e conoscenza, piacere della forma e margini di riflessione.
Lio piccolo è un'isola della laguna veneta, anzi un insieme di isolotti separati da canali molto stretti, collegati da ponti. È vicino a Cavallino, a Treporti; vale a dire che a pochi minuti di barca o di traghetto c'è Venezia. È quasi necessario immaginare Venezia, appena dietro lo sguardo. Venezia di souvenir e B&B, Venezia spopolata e invasa ogni giorno, Venezia con la sua eterna magnificenza dell'arte e il suo eterno carnevale del turismo. Roncali e Mercanzin non ne fanno menzione, puntano tutto sulla possibilità di questo luogo altro di essere soltanto se stesso. Una marginalità che è persistenza, non si vanta della sua singolarità, non si lamenta dell'isolamento.
Lio è una contrazione locale della parola lido. L'io è una funzione grammaticale che mette in evidenza il soggetto della parola. Un piccolo lido incontra un soggetto che restringe i propri confini, li fa aderire al tempo, alle cose, agli accadimenti che lo coinvolgono. Nessuna polemica con il presente, che vuole per ogni cosa, per ogni esperienza e per ogni soggetto un superlativo. Nessuna polemica ma il fermo raccoglimento intorno a quanto dell'esperienza può diventare vita propria, unica, senso che si fa della vita vivendo.
Spesso abbiamo letto, abbiamo sentito dire che tale o tal altro libro di poesia è un “diario”. Il senso è intuitivo. Ma ci siamo mai chiesti che rapporto c'è tra un vero diario (come vuole la definizione, un susseguirsi di note legate a una data) e il lavoro della poesia, che richiede meditazione, ritorni nel tempo, riscritture? Allora possiamo dire che quello di Roncali è un diario delle sue gite a Lio piccolo, un posto che è una singolarità, il contrario di un non-luogo, nonostante la sua distanza da pochi raggiunta, la sua vita che ha ritmi e forme non allineate a un presente che uniforma ogni comportamento. Un super-luogo, in un certo senso. La lievità, la sincerità che ci convince in questi componimenti, è però proprio la mancanza della prevedibile retorica del super luogo. Roncali trasforma il diario delle sue gite (lo dico così, con un voluto abbassamento, con l'espresso fastidio che una tale proposta mi arrecherebbe) in un abbandono al richiamo che queste sue visite (con questa parola, le gite si trasformano in relazione personale) rivolgono alla sua vita, che è altrove da qui, ma qui trova confronto e pensiero, una parola che sente propria. Visitando Lio piccolo, Roncali accetta di venirne a sua volta visitato. Senza enfasi. Senza proclami. Ma il suo sguardo si affina, il suo stare diventa esigente per il suo comprendere, prima di tutto se stesso, senza mai parlare di se stesso con enfasi.
Ecco che allora anche noi, percorrendo le pagine di questo piccolo libro, sentiamo di visitare e di essere visitati (mai invasi, mai urtati) un altrove che - in fondo - riconosciamo ancora parte della nostra coscienza e della vita quotidiana. Un altrove che ritroviamo nella nostra vita quotidiana anche dove e quando è troppo piena, assediata da troppo altro.
C'è dell'intelligenza, certo. C'è dell'artigianato. C'era il rischio di riproporre in termini attuali ciò che un tempo si chiamava “bozzettismo”. Ma i pregiudizi si formano e si sciolgono: resta un piccolo libro che torneremo a sfogliare e che sapremo dove si trova a casa nostra. Dove potremo ritrovarlo.




















INTERVISTA: WITNESS JOURNAL - settembre 2017

date » 01-10-2017 00:12

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Raccontare il silenzio: intervista a Ivano Mercanzin
settembre 27, 2017
di Cristiano Capuano

Ciao Ivano. Cominciamo con qualche battuta su “Coney Island”, affascinante progetto che ha indubbiamente segnato gli ultimi due anni della tua carriera. Ciò che risalta maggiormente dalle foto di questa serie è la ricerca di una sorta di “segno opposto”, un capovolgimento dei motivi tradizionali che hanno costruito l’iconografia di uno dei luoghi simbolo di New York. Siamo a Brooklyn, dunque al cospetto di una geografia sociale assolutamente pop, in quanto trasversalmente e ampiamente rappresentata dall’arte, dal cinema e dalla letteratura. Da dove nasce l’impulso alla sovversione di quest’ordine semantico che risulta in un ritratto più intimo, nebbioso e malinconico di Coney Island?

E’ stato un caso, come sempre finora accade ai progetti che ho realizzato: parto con nulla in mente e poi m’immergo nella realtà del luogo dove sono, cerco di sentirne i profumi, gli odori, i colori, i silenzi, i suoni; cerco di fiutare l’aria, lasciando libere le mie emozioni. Il corpo e la mente si predispongono ad assorbire, fino a sentire a volte una scarica di adrenalina che mi fa prendere in mano la macchina fotografica. Allora inizio a scattare, a fissare, a fermare gli attimi, a congelarli, o meglio a riscaldarli, diventando tutt’uno con l’apparecchio, quasi fosse un naturale prolungamento della mia anima, del mio cuore, delle mie emozioni.
Ero per caso a Coney Island senza alcuna programmazione o preparazione e mi sono ritrovato in un mondo surreale, come all’interno di una favola o in un quadro di Chagall in bianco e nero con mille sfumature di grigio. Sono proprio le sfumature, a volte, a raccontare di più dei troppo pieni, quei delicati sbuffi di non colore che sembrano poesia. E’ per questo che amo narrare del poco, del quasi nulla, quello che non si coglie a prima vista, ciò che non è urlato ma impercettibilmente sottotono; quello che solo se si ha il tempo e la lentezza di aspettare si riesce a cogliere e quando lo si vede diventa un tutt’uno con noi stessi, osservatori sconosciuti, e per un attimo senza tempo si sta insieme, provando la stessa emozione, entrando in empatia. E’ lì che il mio racconto si compie, la mia storia assume un senso, e la gioia non ha limiti .

Parlando di questa serie, hai espresso il desiderio di “raccontare il silenzio”. Trovo sia un’espressione abbastanza calzante dal momento che le tue foto trattano con delicatezza la complessità dei vuoti e delle assenze. Non si tratta, però di una vacuità orrorifica, bensì di una catarsi invernale che libera dei luoghi ricreativi dall’asfissia dell’elemento umano. Quale ruolo giocano i soggetti anonimi ritratti in lontananza su spiagge e pontili, caffè luna park della tua Coney Island?

Raccontare il silenzio, è una definizione di un sensibile osservatore a una mia mostra; ascoltandola allora mi ha fatto pensare e mi ha spinto a osservare con più attenzione le mie foto. Era proprio vero. Le prospettive che allontanano lo sguardo, le strutture metalliche verticali che si perdono nella nebbia, le figure solitarie che passeggiano nella battigia con lo sguardo a terra, mentre il mare e la sabbia le incorniciano: tutto ciò richiama il silenzio, quell’assenza di rumore se non quello del mare che sciaborda, naturale suono che culla la mente e accompagna i pensieri , lasciandoli fluire senza interruzione, finalmente liberi di ondivagare liberamente. Ecco quindi che i vuoti o le assenze non sono dolorose, ma benefiche: è cercare di ritrovarsi e parlarsi e soprattutto ascoltarsi, entrando in perfetta sintonia con se stessi. Le figure solitarie sono elementi indispensabili nel mio racconto: perse nei loro pensieri, perfettamente amalgamate con l’ambiente intorno, in pace con loro stessi, attori ignari delle mie storie; persone che si allontanano, e che non voglio avvicinare, per rispetto, per discrezione, per riservatezza, per non disturbarli nel loro pensare. Divengo spettatore della loro esistenza, e siamo accomunati dall’attimo, dal breve spazio-tempo. Quello è l’istante che viene fissato dallo scatto, divenendo eterno, e da lì inizia la storia.

Se la memoria non mi inganna, questo progetto è nato nel dicembre del 2015 mentre ti trovavi a New York per esporre alcuni tuoi precedenti lavori aventi la città di Venezia come soggetto principale. I tuoi notturni veneziani sono parimenti evocativi di un’atmosfera metafisica e spettrale, e nascono in un contesto segnato – proprio come Coney Island – da una forte presenza umana (in questo caso di natura turistica), disinnescata, però, dalla solitudine della notte. Credi che esista una corrispondenza diretta tra le due serie?

Su invito di un amico ho esposto nel suo negozio che si trova in Madison Avenue vicino al Central Park. Provavo una strana sensazione nel vedere le mie foto in bianco e nero di Venezia che contrastavano con il caos della Grande Mela. Le foto erano affreschi notturni scattati in alcune notti invernali. La città era magica, con i lampioni tenui, il vapore del mare, l’odore di salmastro, i campi, le calli, i ponti e le persone che sembravano perdersi nella notte, assorbite dal buio come in un’atmosfera metafisica e spettrale, il ticchettio delle scarpe a fare da colonna sonora. Pensavo alla frenesia del giorno, così contrastante con il silenzio della notte e l’assenza pressoché totale di persone se non qualche coraggioso abitante notturno. Così come Coney Island, nell’estate un turbinio di colori che si trasforma in inverno in un villaggio solitario, come a reimpossessarsi del suo stato primigenio in cui la natura sembra prendere il sopravvento sull’intervento dell’uomo.

Nell’esporre le foto di Coney Island, hai idealmente separato quelle più “frontali” dei boardwalk (che ritraggono il luna park e gli esercizi commerciali) da quelle in cui a dominare è una profondità di campo che proietta lo spettatore nelle nebbie che avvolgono gli sfondi e guardano all’oceano. Credi che questo discrimine prettamente formale nasca dalla tua formazione pittorica, o il tuo modo di concepire gli spazi ha una diversa origine?

Mi sono posto molte volte questa domanda e ritengo sia effettivamente così. Infatti una frase famosa di Ansel Adams dice: “Tu non fai una fotografia solo con la macchina fotografica. Tu metti nella fotografia tutte le immagini che hai visto, i libri che hai letto, la musica che hai ascoltato e le persone che hai amato”. Ecco, racchiusa in questa frase, l’essenza anche del mio pensiero, e quindi è inevitabile che quando inquadri e decidi di fissare proprio quella parte di mondo che in quel momento ti ha colpito e senti tuo, tutto ciò vada ad attingere dal tuo mondo inconscio e conscio che negli anni ha accumulato le tue visioni. Ritengo poi che la composizione sia l’elemento principe nella fotografia, quello che ti permette di creare in un piccolo frammento del tuo sguardo un mondo intero, un racconto, una storia. Per me, la fotografia non deve rappresentare ogni cosa, anzi: si deve togliere il più possibile, lasciando solo pochi elementi sparsi che possano essere carpiti e interpretati dall’osservatore, in modo che egli possa costruire il “suo” racconto e completarlo con il proprio vissuto, filtrandolo con le sue emozioni e con il suo sguardo interiore.

Tu hai studiato disegno e pittura, ti sei interessato molto alla poesia, hai montato delle clip dei tuoi lavori sulle note di Chet Baker e altri standard jazz, e le tue foto di Coney Island sono edite accompagnate dai racconti della scrittrice Tania Piazza. Contaminazione e ibridazione tra le forme d’arte rappresentano motivi imprescindibili della tua ricerca?

Assolutamente sì: ritengo che questa miscellanea di generi sia indispensabile. Non amo gli steccati, gli orticelli, come non apprezzo questo ormai imperante obbligo di definire per forza il genere fotografico a cui si appartiene. Ecco quindi che la musica, l’arte, la poesia e la letteratura sono componenti imprescindibili al mio modo di operare: è da lì che io traggo le mie ispirazioni per le fotografie, è in quell’insieme di stimoli che arrivano poi i miei progetti, naturalmente contaminati dall’ambiente in cui mi trovo in quel momento e dalla persone che vi abitano. La mia ispirazione si alimenta grazie a queste arti, senza le quali ritengo saremmo tutti più aridi e infelici. Il jazz accompagna spesso i miei racconti fotografici, credo sia il genere che meglio li sposi; tuttavia, non disdegno tutti gli altri, compreso il rap, che mi piace molto in questo momento, in particolare quello italiano e di bravissimi rapper soprattutto immigrati (Ghali, Maruego, Amir, Kuti, per esempio). Mi piace ascoltare la musicalità e in particolare analizzare la semantica del loro linguaggio di stranieri italiani, che racconta storie e, attraverso le parole, ci permette di conoscere i loro pensieri. Ho in mente un progetto fotografico molto ambizioso a riguardo e spero di realizzarlo.
Inoltre, inizierò a breve il Masterclass Pro-Photographer di Paolo Marchetti, pluripremiato fotografo internazionale, per apprendere i metodi del reportage e applicarli anche in progetti fotografici con alcune O.N.G. Internazionali con le quali sto già programmando alcune iniziative.
Con Tania invece è nata per caso una collaborazione e un’amicizia, a lei sono piaciute le mie foto e a me la sua scrittura; senza alcuna programmazione, quando vedeva qualche mio scatto che le raccontava una storia, iniziava a scriverla: ecco quindi “Just smile”, ispirato ad alcune foto di The Face o “Infinità” ispirata a una foto di Coney Island, e molte altre fino ad arrivare a un libro con 28 racconti e altrettante scatti in corso di pubblicazione (con una casa editrice di Bergamo); il titolo sarà “L’anima fotografata” e a breve inizieremo a presentarlo.

Soffermiamoci su un’altra nota stilistica della tua opera. Tu hai lavorato molto in bianco e nero, ma in “Coney Island” non sono ragioni prettamente cromatiche a determinare il senso di sospensione delle tue atmosfere; basti pensare alla Coney Island di Bruce Gilden degli anni ’70/’80, interamente rappresentata in bianco e nero, ma ben più estiva, caotica e antropocentrica. Nella tua personale idea di fotografia, il bianco e nero è causa o conseguenza?

Bruce Gilden ha fotografato in bianco e nero e negli anni 70 quello che di fatto sta ancor facendo oggi a colori: visi grotteschi in primo piano, corpi sformati, scene di vita esasperate dal suo taglio personalissimo e unico. Il suo bianco nero non aggiunge né toglie nulla alle sue immagini già “cariche” e “piene”.
Il mio racconto è del tutto diverso: non ci sono primi piani, ma panoramiche, visioni che si allontanano rispetto a inquadrature “strette”. Il mio è un racconto lieve, leggero, quasi impalpabile: il bianco e nero è il naturale “colore” a descrivere tutto ciò, con delicatezza, in maniera poetica e, in questo caso, quasi privo di contrasti. Mi piace l’idea che la sensazione, osservando i miei scatti, sia quella di foto d’antan, un raccontare la contemporaneità con uno stile retrò. Riprendendo una raccolta di poesie di Ferlinghetti, mi piace definire la “mia” Coney Island “il luna park dell’anima”.

“Il bianco e nero racconta il mio mondo interiore, le emozioni e i sentimenti più profondi […] ricco di contrasti, aspro, riflette a pieno il mio carattere solitario”. So che queste parole di Daidō Moriyama ti hanno molto colpito e ispirato, e credo che quest’idea di solitudine sia un’assoluta protagonista di un’altra tua serie newyorkese: “The Face(s) of NYC”. Qui ti sei direttamente misurato con la street photography in bianco e nero – di cui Moriyama stesso è maestro – ed hai efficacemente ritratto il senso di incomunicabilità. Di quella folla cosmopolita e solitaria che popola New York. Quale è stato il tuo approccio ai soggetti? Hai eliso o ricercato l’interazione con loro?

Mi piace molto questa definizione di Moriyama, ma non posso definire il mio carattere solitario; al contrario, mi sento molto socievole, anche se a volte amo fuggire dalla folla e in quel momento ciò che preferisco per eccellenza è fotografare. Non amo infatti condividere il tempo dedicato alla fotografia con altre persone; quando sono solo, quando sento quell’armonia che mi pone in equilibrio con quanto mi sta intorno, la creatività si manifesta in maniera prepotente e percepisco una sensazione che mi avvolge completamente. Il progetto The Face è nato per caso: mi spostavo dal Queens, dove alloggiavo, a Manhattan, e tutti i giorni facevo il pendolare mescolandomi alle persone. Ho cominciato a scattare perché le immagini mi sono venute incontro, mi catturavano e non potevo non fissarle e ciò è molto diverse dall’allontanamento che caratterizza Coney Island. Qui abbiamo un avvicinamento, un faccia a faccia: la macchina appoggiata al petto per non farmi notare e scattavo, passando inosservato, potendo cogliere così le persone nella loro naturalezza, senza forzature o travisamenti che ne avrebbero modificato le espressioni. Ecco forse il perché di questo senso d’incomunicabilità che tu hai captato, uno spontaneo distacco di chi quotidianamente si trova a ripetere gli stessi riti e le stesse abitudini.
Mi sono sentito parte di loro, ho cercato di capire, ho tentato di mettermi in sintonia con le loro abitudini, ho scrutato espressioni cercando di fissarle, riportando a casa quel momentaneo “vissuto” insieme.

Come ultima battuta cercherei una liaison tra queste tue due serie newyorkesi. Vorrei chiederti quale credi sia il rapporto tra loro, e se l’alienazione e il senso di isolamento siano comuni denominatori che obliterano le differenze tra la prossimità fisica, nel caso di “The Face(s) of NYC”, e la distanza dai soggetti, nel caso invece di Coney Island.


Le due serie sembrano essere state prodotte in tempi diversi, invece sono state scattate la stessa settimana di dicembre del 2015 ma con stili differenti: Coney Island con panoramiche e lontananze, figure appena abbozzate, a volte perse tra la nebbia, mai ravvicinate, come sospese in un paesaggio surreale, onirico. The Face, all’opposto, con figure ravvicinate, quasi in primo piano, a volte appena contestualizzate. Sono linguaggi diversi, ma accomunati dallo stesso senso di smarrimento, anche se la solitudine di Coney Island sembra benefica, ricercata come un toccasana, per armonizzarsi con se stessi e la natura d’intorno.
The Face presenta invece una solitudine più profonda, di smarrimento, una solitudine urbana , fatta di indifferenza, di distacco emotivo, pur nella vicinanza con gli altri, come abitanti di microcosmi autonomi e indipendenti. Uno stare con gli altri ed essere altrove. Una vicinanza fisica e una lontananza mentale.
Ecco allora che il fotografo decide in quel momento cosa rappresentare, sono sue le interpretazioni, sue le personalissime scelte di raccontare proprio quello: tutto è funzionale alla sua narrazione e al taglio che vuole dare alle immagini.
Le foto quindi raccontano storie e mondi altrui, ma nel profondo è la tua storia che stai raccontando e il tuo svelarsi che si compie.

WITNESS JOURNAL : L'INTERVISTA

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C'era una volta oggi

date » 10-12-2016 17:13

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Con John Ernst Steinbeck Ivano Mercanzin tu ha in comune la forza narrativa dello sguardo, ogni volta che incontro un tuo scatto rivedo le immagini descritte attraverso le parole di questo scrittore americano in uno spazio tempo dilatato e sovrapponibile grazie a linguaggi diversi e complementari come pochi altri. Come se quel che è accaduto ed è stato vissuto quasi un secolo fa si fosse ripresentato ai tuoi occhi e tradotto in fotografia risultasse speculare, un complemento di moto da luogo che distribuisce la storia ed i suoi ritorni con estrema accuratezza, chiedendo solo la stessa lucidità con cui ognuno di noi si appresta a viverla per essere trasformata in memoria. Tu non sei Steinbeck ma possiedi la stessa forza e poesia, la stessa semplicità e sincerità, quel tipo di immediatezza che ci allena a guardare quel che abbiamo davanti a noi senza chiedere ad un paesaggio di trasformarsi nell'umore che di volta in volta lo veste a seconda di chi lo fruisce. Il luogo che hai ripreso, ogni dettaglio da te fissato nello scatto non sono parte di un incantamento ma una composizione. che si fa portatrice sana di un "vedere" per guardare all'interno ed all'esterno di vissuti, ritrovando se stessi e scoprendo quel che conta veramente nella propria esistenza. Guardando con i tuoi occhi si impara a scremare tutto ciò che non è necessario, dando alle ombre il significato che possiedono senza accorciarle od allungarle come se fossero l'orlo dei nostri sensi, un abito troppo lungo o troppo corto da modificare continuamente. La lucidità con cui tu posi il tuo sguardo su un luogo o l'umanità che lo vive è pari alla bellezza della descrizione di quel che provi osservando la realtà circostante. Gli occhi e l'atto del guardare fanno parte del volto umano, meno li trucchi e li abbellisci e più ti ripagano con la loro sorprendente espressività ricca di un vissuto che fa suo il valore aggiunto di ogni ruga, di ogni umore sedimentato tra le pieghe della pelle, di ogni luce ed ombra che hanno trovato il loro punto di forza in una contrazione muscolare. Più sei sincero, anche nel guardare e più sei consapevole degli infiniti universi che si svelano e si compiacciono di farsi guardare da te. L'atto del guardare traduce diverse grammatiche e sintassi cercando di mettere a nudo l'animo di chi usa la vista, riuscendo a mostrarci cosa conta o vale per questo individuo come pure le forme ed il contenuto di quel che raggiunge il nostro cervello, mettendo in luce vissuti, piani temporali e spaziali, trasformazioni, un divenire che cerca un proprio spazio per dilatarsi o contrarsi, per ospitare al meglio chi lo abita. La potenza espressiva della fotografia sta proprio in questo, negli occhi di chi la elegge a scrittura di luce per mostrare e non dimostrare la dinamica che coinvolge sensi e natura, corpo e mente, visibile ed invisibile, ago e filo con cui viene cucito il rapporto tra entità diverse. Ci sono spazi e tempi lontani gli uni dagli altri, con cui tu hai fissato per sempre questo angolo d'universo che comunicano fra loro grazie alla fotografia, dandoci la certezza che sono esistiti, che esistono e fanno parte delle percezioni di chi li attraversa.,Tutto scorre, il tuo sguardo mentre è in continuo divenire riesce a fissarsi per un istante su un luogo e decide di sostarvi per raccontare la sua storia, per non perdere mai il coraggio di esistere accanto al fiume invisibile dell'esistenza stessa che a tratti dona squarci di visibilità, intuizioni deflagranti per comprendere le forme o la materia di cui è costituita la realtà e la sua storia in cui viviamo e che ci viene tramandata di generazione in generazione. Tutto questo per dirti semplicemente "bella foto" :)
(Paola Palmaroli)

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Paola Palmaroli mi racconta...

date » 03-11-2016 23:18

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Ivano Mercanzin riesce a rendere un luogo straordinario nella sua semplice ed ordinaria espressione spaziale e temporale, lo fa con una naturalezza che incute rispetto e fascinazione, è la sua cifra stilistica, una caratteristica in continua evoluzione che trasforma le sue immagini in narrazioni impareggiabili.
In questo suo scatto la prospettiva ha reso le finestre antiche con le inferriate simili a degli occhi che stanno per chiudersi per la stanchezza ma ancora mantengono viva la loro curiosità di scorgere chi sta camminando oltre quel fossato.
Finestre come occhi appesantiti dal tempo ma non dal desiderio di appartenere sia alla costruzione dove sono incastonate che allo sguardo delle persone che vi passano accanto riconoscendo in un buio invitante il mistero della notte che li sta vestendo ed abbracciando con infinita dolcezza.
In questo scatto accade che il giorno pur avendo rinunciato alla luce del sole abbia chiesto alla la sera di farsi rinchiudere negli occhi della notte per scoprirne la magia indissolubile. Il muretto invita i passanti e chi osserva dall'esterno la scena a seguire una direzione ben precisa ed ha raggiungere le luci accanto alle case che per tutta la notte riusciranno a trasformare quel luogo in un incantamento rotto solo dal suono dei passi di chi vuole rinunciare al sonno pur di rimanere vivo e percepire il pulsare del buio più assoluto. Una città ed il suo desiderio di rimanere sveglia come il cuore di chi la abita, le luci questo raccontano ed Ivano Mercanzin le ha fatte sue in questo delicato scenario dove tutti noi vorremmo passeggiare prima di coricarci. L'autore riesce a farci percepire le voci morbide di chi si sta attardando, il profumo dell'aria quando ancora non fa freddo e la notte indossa tutti gli umori di chi la respira e la impregna di sè. Il buio non appare come incombente ma come un fluire pacato di un tempo a portata di mano di chiunque voglia farlo suo con quella calma che le figure umane lasciano trasparire dal loro incedere. Qualcuno li potrebbe definire sarcasticamente dei nottambuli perditempo, invece insieme alle luci ed al tempo loro si rivestono di quell'incantamento assoluto che ci incute timore e curiosità.

La notte è una seconda pelle, gli esseri viventi si godono una scena delicatissima e sognante dove regna armonia, comprese le finestre delle case, palpebre abbassate per riposare dopo una giornata di luce e di lavoro. Le chiacchiere serali, prima che tutto taccia si fondono con una prospettiva che l'autore dello scatto ha abilmente scelto ed evidenziato per comunicarci una serenità composta apparentemente di poco ma al contrario ricolma di un tutto che giunge fino alla nostra anima.
Come non evocare certe voci che sorridono mentre si fanno udire allontanandosi piano piano dalle case insieme ai passi che le sostengono? Indimenticabile atmosfera e gioco di luci ed ombre, il buio si veste di un cuore rassicurante che Ivano Mercanzin ha continuato a far battere nel suo scatto attraverso una miriadi di dettagli preziosi.

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UN RACCONTO NEL RACCONTO

date » 03-06-2016 19:32

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2016©Ivano Mercanzin

"UN RACCONTO NEL RACCONTO"
di Franco Gobbetti.

Sì, un racconto il tuo, Ivano e anche il mio, se tu permetti, in conseguente botta e risposta per trarne, se ci riesco, una piccola, possibile storia che già è qui, tutta presente nei suoi brillori in bianchi neri plastici desiderosi di raccontarsi. Storia surgiva ed obiettiva, nata istintivamente o intenzionalmente, chissà, da questa bella foto, un'anima narrante in attesa di uscire e farsi leggere e raccontare, se vuoi. Un commento o una recensione o una provocazione amichevole e affettuosa che vuole o vorrebbe approfittare di questo tuo stupendo lessico estetico e grafico offerto da un'immagine che emana spiriti, evocazioni, storia, cronaca e arte in chiaro scuri vaporosi d'acqua sinuosa ed insinuante e sospirante aria salata. La foto già racconto di per sè, fin da subito, nel suo fresco e lustro guazzo odoroso di salmastro mare, evoca vecchie storie di consunte pietre e antichi legni di navigli, pontili, attracchi ed ormeggi. Un tempo, un luogo, un paese isolano che vive con le radici nel mare, un ambiente che di per sè è già storia gloriosa e gratificante. Storia nella storia dunque. Orgoglio storico, fascino e desiderio di condivisione lirica, spirituale ma anche materica e concreta. Un'atmosfera intensissima gioca tra acqua e cielo entrambi modulanti umide voci e alcune figure in movimento, un'imbarcazione in fugace navigazione, alcuni scafi alla fonda d'ormeggio, un uomo, un cappello, un ombrello, alcuni muri e poi lo spazio urbano marinaro e marinaio.Il tutto appare e si esprime come su un palcoscenico in un taglio di luce diagonale quasi drammatico, anzi, dire proprio drammatico, nervoso, inciso e tirato visivamente all'inverosimile. Il cielo già basso tende a scendere ancora di più su questo squarcio lagunare, pesando immane e quasi rapace in questo taglio spiovente, corrucciato e sfrangiato nelle proprie evoluzioni di bassi e intensi nembi cotonosi sfilacciati, ancora custodi e forieri di prossima probabile pioggia. I pesci, le alghe, i fondali lagunari della Serenissima e le creature d'acqua e fango se ne stanno rintanati mentre le case immobili interpreti, testimoni come sempre di questa scenografia a cielo aperto, sembrano sfidare il tempo immane, il cielo eterno, l'occasionale pioggia e l'onnipresente, immancabile mare giuliano in compagnia di un vento sonoro che porta e riporta, linguaggi, fiati, sapori, echi, figure e voci nuove ma anche emozioni antichissime. Uno sparuto quanto solitario passante in occasionale controluce o quasi, sembra indugiare, rapito ma ben consapevole, a guardare, ad ascoltare questi suoni liquidi e lucidi di bagnato, come scure, brillanti pelli d'anguille, che rimbalzano da riva a riva, da canale a canale, di onda in onda, di casa in casa, di chiglia in chiglia per poi disperdersi più lontano in un affogare continuo e ripetuto appuntamento naturale tra nubi e onde d' Adriatico. Un quadro intriso di luce chiusa, plumbea ma nello stesso tempo anche inaspettatamente brillante, una luce quasi che schiocca per riflessi e luccicori brillanti, esplosa in varchi e vampe graffianti che sfiorano le ombre e le penombre diffuse del borgo marinaro. Il passeggiatore con cadenza amena e pacata, si presume da conoscitore dei luoghi, con il volto nell'aria, con il viso pieno d'aria e ventosa salsedine porta a spasso se stesso ma anche l'ombrello chiuso ed il cappello che sembra tenergli e contenergli i pensieri ben riparati e fissi, a prova di colpi di vento, ben calzato in testa. Il passo dell'uomo è lento, rilassato, si direbbe che procede con un passo che gusta e degusta, apprezzando. Non potrebbe essere altrimenti, in quanto se così non fosse non permetterebbe a quei suoi pensieri e allo sguardo di spaziare in quell'incanto urbano e marino al contempo, prettamente lagunare che per fortuna continua a ripetersi con sua e nostra profonda soddisfazione e incantata ammirazione. Cuore di terra e acqua salata. Profumo di sabbia, sale, pesce, legno bagnato, fango e anime marine. Un'isola che è al contempo paese riparato e anche ampio respiro aperto sull'antico mare che, come un anziano patriarca veglia sui suoi domini. Tecnica fotografica e stile narrativo a mio avviso pressochè perfetti, c'è sempre tanta bravura nel confezionare, rapire e fermare immagini e sensazioni così vibranti e toccanti.

Adoro il contrasto che hai donato a questo frame, c'è forza in ogni ombra che veste sia il luogo che la figura umana. Venezia dona infinite suggestioni, potremmo visitarla innumerevoli volte e scoprire in ogni occasione la sua capacità di essere tutto ed il contrario di tutto. La tua visione mi fa percepire il suo bisogno di sopravvivere alla natura che la circonda, al suo stesso destino, apprezzo quella cupezza apparente e la leggo come se fosse un'inspirazione profonda prima di raccogliere tutte le sue forze per rispondere al clima, all'acqua, agli esseri viventi che la abitano, mostrando il suo carattere silenzioso e malinconico ma per nulla rassegnato.
Paola Palmaro

RACCONTO: Non lasciarmi adesso che ho tante cose da dirti

date » 26-03-2016 19:15

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foto: NYC 2015©Ivano Mercanzin

“Non lasciarmi adesso che ho tante cose da dirti”.
Renè aveva finito di scrivere la sua ultima lettera alla donna che avrebbe voluto continuare ad amare come quando l'aveva conosciuta nella subway. Era riuscito con un piccolo gesto eroico a disincastrarla dalle porte della metro che le avevano stretto il cappotto come due tenaglie. Dal panico alla riconoscenza in pochi attimi, poi l'invito per un caffè, i primi imbarazzi, i primi baci e la vita insieme in un monolocale sulla 41St Avenue.
Aveva lasciato tutto alle spalle Renè, la sua laurea in filosofia, gli amici di Lione e il lavoro come cassiere in un discount, aveva seguito le strade che imboccava ogni notte quando spegneva le luci e dava l'ultimo sguardo al sax prima di addormentarsi. Erano le vie del Jazz, dei locali bui, dei tavolini rotondi in radica, di posa ceneri zeppi e di donne che si strusciano addosso e ammiccavano a chiamata per un Gin Tonic. Suonava di giorno e di notte Renè, inumidiva l'ancia con la stessa passione con cui baciava la sua Jenny quando all'alba tornava dai concerti dopo aver interpretato i brani di Jonh Coltrane o Michael Brecker in quei piccoli club dove il compenso di fine serata è incerto fino alla fine. Suonava per lei e per lui e per quel figlio che non arrivava “per colpa di quel posto di merda dove lavoro”, come diceva sempre Jenny piangendo davanti allo specchio del piccolo bagno di casa.
Lavorava in un fast food Jenny, uno di quelli che a pochi dollari ti danno il pollo fritto o un hamburger crudo. Era l'addetta ai fritti, stava nelle retrovie Jenny, impugnando il cesto della friggitrice e facendolo roteare con attenzione per non ferirsi alle mani. Ma in fin dei conti quegli schizzi di olio bollente le erano familiari, le lievi ma profonde scottature le avevano segnato le dita, i polpastrelli, il polso, sotto le urla del capo che alla cassa ordinava le solite patate fritte, la solita coscia di pollo ben rosolata. Non c'era tempo da perdere in quella stanza lunga e stretta dove all'ordinazione seguiva un drin che indicava il cibo da cucinare all'istante.
E' un Mi o un Re, aveva ipotizzato Renè quella volta che era andato a trovare la sua donna in quel fast food. “Quel drin corrisponde ad una nota precisa” le aveva spiegato mangiando un fish and chips seduto al tavolo che dava sulla galleria del centro commerciale. “Devo capire quale”.
Era questo che Jenny detestava di Renè, quella dimensione extra terrena che lo avvolgeva fin da quando era arrivato a New York per fare il musicista immigrato. Quell'essere distante da tutto, sospeso come una melodia, prossimo all'essenza senza però coglierne il fulcro. Era apparente profondità, almeno questo pensava Jenny, era distanza che provocava un solco, uno fessura che giorno dopo giorno si allargava mentre il giorno e la notte dividevano le loro esistenze fatte di crocchette impanate e improbabili club a ovest, sulla 52esima strada. Era una ragazza fiera Jenny, forte di quella fierezza che arrivava da lontano, quando sei abituata a combattere da sola per un libro di scuola, per un jeans in vetrina o per un maledetto i-pod che fino a ieri dovevi condividere con tua sorella. Si chiamava identità, indipendenza, capire fin da piccola poche regole: rispettare e farsi rispettare, era l'unica cosa che le aveva insegnato sua madre. Il resto l'aveva realizzato da sola, gli studi in una scuola pubblica, un lavoro, un amore, una casa, il tempo da trovare per leggere i classici alla Public Library sulla Quinta Strada. Le bastava questo per compensare quelle ore nei panni dell'addetta ai fritti.
L'addio Jenny l'aveva meditato da tempo, quella mattina prese la metro alle 7 di mattina. Uno zaino pieno di t-shirt e libri, una bottiglietta d'acqua, il giubbotto nero comprato in saldo una settimana prima e le cuffiette per sentire l'ultimo rap di Fatty Wap. La colonna sonora perfetta per dire basta, non era Renè la causa di quel viaggio che la ragazza del Queens Bridge voleva assolutamente compiere. Piuttosto la fuga da quel mondo monocorde, monocolore come il tono su tono della stazione della metro. L'attendeva la sorella e nessun altro, dall'altra parte della città, lontano da tutti, lontano da quei drin, distante dal jazz. Aveva perfino gettato la scheda del telefonino in un tombino, aveva chiesto in silenzio di essere lasciata in pace, voleva l'isolamento, chiedeva la solitudine. Lei, che per tutta la vita era stata costretta ad essere qualcuno o qualcosa.
A Renè mancava la forza per cercarla, il desiderio di possederla, la voglia di riaverla anche solo per un giorno. L'unica consolazione era sapere che Jenny si trovava dalla sorella in chissà quale appartamento e quella certezza era diventata un rifugio per tutte le sue insicurezze. Steso sul letto, aggrappato alla custodia del sax produceva lettere per dirle tutto ciò che non aveva mai avuto il coraggio di pronunciare, fino a sputare la cattiveria che non aveva mai potuto esprimere, collocato fino a quel momento in un ruolo che deformava la realtà più intima.
“Non lasciarmi adesso che ho tante cose da dirti”, ripeteva in ogni scritto in calce, prima della sigla con cui si firmava. Ne scriveva due a settimana, una martedì e una sabato, le spediva l'indomani calcolando i tempi di arrivo a destinazione. Divenne una cura per lui e per lei che a quelle lettere non rispose mai. Finchè un giorno Jenny scese alla fermata 21Street della metro, salì le scale per imboccare il viale alberato che l'avrebbe condotta a casa, suonò il campanello ma non rispose nessuno, allora frugò nella borsa per trovare le chiavi ed entrò senza un'emozione particolare. Se n'era andato, aveva lasciato il sax appoggiato al muro del cucinino. Sul frigo aveva appeso un foglio giallo indirizzato a lei, sicuro che prima o poi sarebbe tornata. “Avevo tante cose da dirti e le ho dette tutte, ora sono stanco, esco per un Gin Tonic”.
E.MAR.

E bravo Ivano che riesci con sensibilità a trasmettere ancora più fascino e interesse a queste tue foto urbane, anzi superurbane. Ci riesci nel senso che sai unire sguardo e cuore, macchina fotografica e sentimento, visualizzazione e considerazioni liriche o poetiche. Le tue immagini appartengono al tessuto gigantesco di una enorme città. Esse ti impegnano e ti coinvolgono evidenziando non solo il linguaggio visivo ed espressivo delle situazioni, di questa situazione in particolare, ma riusciendo pure a liberare naturalmente un filo creativo ed emozionale più ampio e completo. Ne nasce quindi un racconto. Improvvisamente una storia prende corpo da un appunto, da un quadro in un fermo immagine, uno stop che non azzera ma evoca e rimanda a vari pensieri e considerazioni peraltro contingenti e conseguenti alla foto stessa. Evochi qui una storia raccolta per strada, dai marciapiedi e dai quartieri che nasce da un riquadro visivo urbano di comune vita cittadina e quotidiana. Bella la foto e bello pure il testo. In questo modo rispondi bene e in giusto tempo a quanto ha pubblicato qui sotto Simona Guerra nei suoi articoli riguardanti fotografia e scrittura che peraltro mi trovano d'accordo anche se l'argomento in se meriterebbe forse più spazio e approfondimento. Anch'io nella mia pagina sto tentando di sperimentare fotostorie o fotoracconti che pubblicherò quanto prima sottoponendoli a giudizio e commento pubblico e soprattutto tuo e vostro, se vorrete essere disponibili, spero di si. Credo comunque che un buon fotografo o un buon operatore impegnato nelle arti visive o nella comunicazione più in generale, da bravo cacciatore d'immagini e da bravo evocatore scenico, non possa che essere anche scrittore. Forse non riuscirà ad esserlo talvolta nell'espressione grammaticale più raffinata, sintattica, lessicale o stilistica ma lo sarà senz'altro nell'animo e nel pensiero. Come sempre un apprezzamento particolare per questi tuoi lucidissimi e molto umani bianconeri estremamente espressivi che sai far parlare al meglio in tutta la loro grafica e che riescono ad animare situazioni, estetiche, storie e varie umanità attraverso la loro particolare e talentuosa grafia narrante e narrativa.....ciao.
FRANCO GOBBETTI

PRESS: IL FOTOGRAFO MARZO 2016

date » 15-03-2016 22:07

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"Il pizzo verticale delle facciate veneziane è il più bel disegno che il tempo-alias-acqua abbia lasciato sulla terraferma, in qualsiasi parte del globo.
In più esiste indubbiamente una corrispondenza - se non un nesso esplicito - tra la natura rettangolare delle forme di quel pizzo - ossia degli edifici veneziani - e l'anarchia dell'acqua, che disdegna la nozione di forma.
E' come se lo spazio, consapevole - qui più che in qualsiasi altro luogo - della propria inferiorità rispetto al tempo, gli rispondesse con l'unica proprietà che il tempo non possiede: con la bellezza.
Ed ecco perché l'acqua prende questa risposta, la torce, la ritorce, la percuote, la sbriciola, ma alla fine la porta pressoché intatta verso il largo, nell'Adriatico".
Iosif Brodskij- Fondamenta degli incurabili,

Ivano Mercanzin sceglie uno stralcio dell’opera di Iosif Brodskij per introdurre la propria visione di Venezia, portando l’attenzione di chi osserva più sull’atmosfera e sulla dimensione sensoriale che sulla descrizione e sulla documentazione.
Come il poeta russo, ormai considerato un grande maestro del XX secolo, l’autore di queste immagini volge lo sguardo verso l’intima atmosfera di una città nascosta , notturna e a tratti tenebrosa.
Da questa prospettiva, l’inverno è la stagione ideale che gli permette di conoscere gli aspetti autentici e sinceri di una città del tutto sconosciuta allo sciame di turisti e visitatori della bella stagione.
Il suo sguardo si muove tra le luci soffuse e le ombre che dominano la notte umida e penetrante della città lagunare. La nebbia, i colori smorzati e il suono dell’acqua sembrano emergere dalla fotografie di Ivano Mercanzin con una sensibilità delicata che riconduce al sentimento contemplativo della solitudine e della quiete
Il paesaggio lagunare è ritratto con ritmo fluente e armonia espressiva nel giusto equilibrio dei bianchi e dei neri che si susseguono in giochi prospettici.
Ottima interpretazione, romantica e dinamica al tempo stesso.
(Denis Curti - direttore de Il Fotografo)

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